domenica 8 agosto 2010

Thomas McGuane

Sporting Club è il rocambolesco esordio di Thomas McGuane (e risale a 1968) e magari non c’è ancora la raffinatezza con cui, altri anni e altri romanzi dopo, riuscirà a trasformare il sarcasmo in ironia, raggiungendo un raro equilibrio tra la grazia della scrittura e un sottile e acutissimo tono di polemica. Nella sua essenza, però, Sporting Club contiene già, per quanto acerbi e squilibrati, tutti gli elementi che distingueranno la sua narrativa, a partire dal racconto di una “borghesia” non molto illuminata, “uomini senza opinioni, colori genuini, ambizioni ingombranti e sogni ad alta velocità” per dirla con le sue parole. Attraverso le loro gesta, Thomas McGuane spinge sulle pagine di Sporting Club un ritratto decadente della società americana nei primi anni della seconda metà del ventesimo secolo che nelle sue linee generali è ancora molto attuale. L’occasione è data da un triangolo di amici, amanti ed equivoci che si articola tra le mura di uno “sporting club” che è la parodia, anche piuttosto feroce di tutti i “country club”, come espressione di ogni circolo chiuso ed esclusivo. Va da sé che lo Sporting Club di Thomas McGuane è del tutto particolare nel sintetizzare i tic e i luoghi comuni di quella che dovrebbe essere l’élite di una nazione, o magari soltanto di una città e invece si svela come una tribù deforme, bizzarra e autoreferente. Allo Sporting Club l’hobby preferito non è né la caccia al gallo cedrone né la pesca alla trota, ma il complotto, gli uni contro gli altri. Nei momenti lasciati liberi dalle congiure “bevono un sacco. Parlano del passato. A volte è commovente, in genere molto noioso. Il peggio viene quando cantano”. Fuoriclasse, in questo genere di attività, è Vernor Stanton, figlio di papà dalla natura psicotica, uno che ammette con un certo candore: “Non mi sto giocando niente. Sono in vacanza. Ordire trame, sberleffi, duelli e spargere zizzania con un ghigno satanico stampato in faccia è la sua unica occupazione quotidiana e si scontra con l’amico James Quinn che invece un lavoro ce l’ha (più o meno) da qualche parte. Gli eventi precipitano in una serie di circostanze catastrofiche (dall’esplosione di una diga ad amplessi multipli open air) con risvolti imprevedibili, spesso venati da una surreale tinteggiatura psichedelica. Ciò non toglie nulla all’affilata ricostruzione di Thomas McGuane che non concede scappatoie ai suoi personaggi. Un po’ perché “la vita è vorace, e non c’è scampo”, un po’ perché “la storia non ha rispetto per il singolo individuo” gli affiliati allo Sporting Club finiscono su un’ipotetica gogna e, giunti nudi alla meta, rivelano tutta la precarietà morale delle frustrazioni e delle idiosincrasie del potere e dei potenti (perché di quello si sta parlando). Un minimo di giustizia trova il suo corso, almeno nelle pieghe di un romanzo. Sarà anche innocua, ma basta ad avvalorare il proposito di Thomas McGuane che, con la voce di uno dei personaggi di Sporting Club, semplifica così l’essenza di quei circoli impermeabili e accidiosi: “tuttavia, dimostrando un insperato buon senso, la gente costruisce le bombe che si merita, e fino a quando continueranno a usarle, io li tratterò come le merde che sono”. Il romanzo è esuberante e caotico, l’idea di fondo era e resta perfetta.

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