E’ passato quasi mezzo secolo, ma leggendolo (e guardandolo) sembra che la Rolling Thunder Revue sia finita ieri. Tutto comincia quando Sam Shepard, all'epoca sceneggiatore emergente, trova un appunto accanto al telefono in cui c'è scritto che Bob Dylan ha chiamato e che è urgente richiamare. “Funziona così, giusto? Dylan ti chiama e tu molli tutto. Come il canto delle sirene, o una roba così. Tutti mollano la zappa a metà del solco e si precipitano da qualche parte del Nord-Est” scrive Sam Shepard all'inizio dell'avventura: il suo compito sarà quello di cercare di dare una forma compiuta (parlare di sceneggiatura è troppo) al film che deve documentare la Rolling Thunder Revue. Una tournée decisamente anomala, a prima vista: nell'autunno 1975 Bob Dylan si fa accompagnare da una nutrita e composita serie di musicisti e ospiti (si va dal grande chitarrista inglese Mick Ronson, a Joan Baez, da Allen Ginsberg a Roger McGuinn) per una serie di spettacoli in piccoli teatri del New England, il cuore della repubblica invisibile americana. Per quanto estemporanee siano le motivazioni e caotica l'organizzazione, la Rolling Thunder Revue incrocia e delimita tutta una galassia di suggestioni: sembra ricalcata su un medicine show (uno di quegli spettacoli itineranti che costituirono parte fondamentale della cultura popolare americana); ha lo stesso carattere informale dei bivacchi e delle canzoni attorno al fuoco (anche se il concerto finale sarà al Madison Square Garden, forse per far tornare i conti dicono gli scettici); ha un carattere comunitario perché musicisti, tecnici, giornalisti e scrittori al seguito (compreso Sam Shepard) vivono tutti insieme (Bob Dylan e relativo manager a parte); e, per finire, sembra sublimare, sulla tomba di Jack Kerouac, tutta l'epopea della Beat Generation. La guerra del Vietnam è finita drammaticamente da pochi mesi, “la caduta dell'America”, come direbbe Allen Ginsberg, è verticale e rovinosa e persino il nome stesso della tournée sembra una specie di “addio alle armi”: Rolling Thunder era infatti la sigla con cui erano identificate le operazioni di bombardamento sul Vietnam dal 1965 al 1968. Non è certo che sia stato l'unico modello di riferimento per trovare il nome al tour (anche se chiamare i camerini “Guam”, dal nome della base da cui partivano i B52, è un altro indizio piuttosto decisivo), ma la connessione è evidente. La Rolling Thunder Revue è stato l'ultimo valzer definitivo, un viaggio nei luoghi dei Basement Tapes, l'inizio del Never Ending Tour, un commiato fragoroso e decadente perché “il passato è questo istante che fugge”, scrive Sam Shepard e il suo diario è un processo, per frammenti e tentativi, per cogliere l'attimo, lo spirito dei tempi, il colore delle chitarre, le gambe di Joan Baez e il volto di Joni Mitchell, David Blue e William Burroughs, Muhammad Ali alias Cassius Clay e Rubin Carter alias Hurricane e naturalmente Bob Dylan in action che proprio con la Rolling Thunder Revue sembra proiettato verso una dimensione sublime. Il coltissimo e lucido (nonostante la quantità di sostanze illecite che furono parte integrante della tournée) Sam Shepard gli trova una connotazione che va oltre il tambourine man, la rock'n'roll star, il portavoce di una generazione, il folksinger o uno dei tanti luoghi comuni che chiunque ha provato a stampargli addosso quando scrive che Bob Dylan e tutta l'aura che si è creato attorno hanno la forma del mito e “il mito è un mezzo potente perché parla alle emozioni e non alla testa. Ci spinge in una zona di mistero. Alcuni miti sono pericolosi da seguire mentre altri possono cambiare qualcosa dentro di noi, anche solo per un minuto o due”. Nessuno ha scritto di Bob Dylan come lui e l'originale Rolling Thunder Logbook è stato arricchito da una (sua) nuova prefazione (molto bella) e da una nota di T-Bone Burnett all'epoca imberbe chitarrista finito nella mischia. Per i più giovani, va segnalato che i dischi di riferimento sono Desire, Hard Rain e naturalmente il capitolo delle Bootleg Series del 1975 dove Larry Ratso Sloman, inviato da Rolling Stone al seguito, scrive che i bombardamenti chiamati Rolling Thunder vennero ordinati da Nixon negli ultimi anni della guerra del Vietnam. Il lapsus (peraltro relativo) rende però bene l'idea di come si volesse ancorare Bob Dylan ad un dato storico, a un presente evanescente, alla cronaca quotidiana mentre era già in partenza verso il passato o il futuro o tutti e due perché, come scrive T-Bone Burnett in conclusione alla sua presentazione, “da allora nessuno è stato più lo stesso”. Fondamentale.
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