lunedì 30 agosto 2010

George Pelecanos

Derek Strange, private eye della Strange Investigations, ascolta Al Green, Ennio Morricone, gli War, James Brown. Nell’auto, dove vive più che in ufficio perché a lui piacciono i metodi old school c’è anche una K7 (è l’ultimo rimasto al mondo a usarle) di Stevie Wonder, una presenza costante nell’arco di tutto il romanzo, che è noir nel senso migliore del termine, ovvero accede alle “backstreets” di una metropoli (è Washington) attraverso e con la tensione di un romanzo, ma cela tra le sue pagine molti elementi di storia, di cronaca nonché di utile polemica. La musica fa da collante, almeno nella trama, e, nello stesso tempo, da prisma focale nel mostrare i vari livelli urbanistici e sociali della metropoli: l’hip-hop nelle strade, la Motown nei soggiorni, tutto il resto (da Nino D’Angelo ai Limp Bizkit) nell’aria e nel finale (prima dell’epilogo con Al Green) c’è la tromba rarefatta di Miles Davis. Più di una colonna sonora per raccontare con uno stile sciolto, molto descrittivo, molto cinematografico le “vite brevi” dei ragazzi e delle ragazze nelle periferie dell’impero dove chiunque, non ancora adolescente, finisce per essere un numero “buono per la statistica”. Derek Strange e i suoi soci conoscono bene quelle strade dove “comportarsi sempre bene era difficile. Difficile camminare in un certo modo, parlare in un certo modo, controllare sempre il proprio atteggiamento, quando a volte tutto quello che uno desiderava era essere giovane e divertirsi”. Quartieri minati senza rimedio dalla droga, dalla prostituzione, dalle armi e da un’ossessione per il denaro che diventa “la morte della lealtà”. Un territorio frantumato e desolato, “un posto dove non puoi nemmeno guardare qualcuno per paura che ti faccia fuori”. Quando Joe Wilder, dieci anni e promessa del football allenato proprio da Derek Strange nei ritagli di tempo, viene ucciso in un regolamento di conti, vittima innocente di una vendetta nutrita da un odio diffuso e velenoso, molti dettagli cominciano ad associarsi in modo quasi naturale. Derek Strange si ritrova nell’epicentro di un caccia all’uomo senza esclusioni di colpi che George Pelecanos, abilissimo nel disporre piani e prospettive, mette al centro dell’azione. Intorno lascia gravitare altre storie (compresa l’urgenza dei legami affettivi di Derek Strange e colleghi) tutte funzionali a identificare con precisione netta le identità dei personaggi nonché la mappa storica e geografica della città. Il thriller o il noir in genere diventa, una volta di più, un modo per narrare la realtà senza i filtri della cronaca o dell’analisi storica: l’emarginazione, le gang, l’impoverimento e la disperazione di interi quartieri, la minaccia quotidiana di una decadenza inarrestabile che non è frutto solo di “una contrapposizione tra bianchi e neri, bensì tra avere e non avere denaro, e del modo, per quelli che ne avevano, di mostrare la loro superiorità su quelli che non ne avevano. La buona vecchia insicurezza, antica come il mondo”. Un dubbio enorme che attanaglia tanto Derek Strange quanto George Pelecanos che di fronte all’ennesima, piccola vittima innocente forgiano un comma fondamentale: “Nessun omicidio può essere risolto”. Si può vendicare, in un modo o nell’altro, ma è sempre una ferita che non si rimargina più.

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