“Non c’è niente di più importante del fallimento” ha detto una volta Bob Dylan e la frase si adegua alla perfezione per presentare il breve romanzo di Larry Brown. 92 giorni è un’elegia del fallimento, ma non nasconde nulla, non s’inventa una (falsa) mitologia da “loser”, mette sul piatto un niente che è livido e brutale nella sua franchezza. Senza alcuna concessione di sorta, a partire dal memorabile incipit, quattro righe che svelano tutto il (breve) romanzo: “Monroe venne a trovarmi un giorno, poco dopo il mio divorzio. Aveva portato un po’ di birra. Ero felice di vederlo. Ma, soprattutto, ero felice di vedere la sua birra”. Il protagonista di 92 giorni prende un “downbound train” lanciato a tutta velocità e nella più totale autoindulgenza non vede nemmeno arrivare il capolinea. Scrittore in crisi, uomo spezzato nei legami più intimi, trasforma la propria vita in un manuale dell’autodistruzione e Larry Brown è capace di trasformare il nichilismo insito tra le righe in una sorta di romanticismo bohemmienne, una forma di narrazione aspra, ruvida e incontinente nello scaricare sul lettore le tristi emozioni del protagonista. Travolto da un fiume di alcol e dall’incapacità di venire a patti con i propri “lati oscuri”, il protagonista di 92 giorni si costruisce un’identità da fottuto perdente che, al saldo delle trame psicologiche, è soprattutto una scappatoia dalle responsabilità e dalla realtà, peraltro ammessa con un certo candore: “visto che avevo scelto di essere un miserabile, volevo essere un miserabile a tempo pieno”. La sua vocazione per la sconfitta si scontra con le lettere di rifiuto e l’ostracismo del mercato editoriale, ma più di tutto con la sua autoindulgenza a cui è affezionato in modo particolare: “Avevo un posto dove stare. Avevo un letto, una sedia, qualche libro e dei dischi. La prima notte l’unica cosa che riuscii a combinare fu rimanere seduto a osservare un foglio di carta bianco. La notte successiva, la stessa cosa. Non mi veniva niente. Sapevo di aver perso l’ispirazione. Avrei dovuto passare il resto della vita a verniciare case. La terza notte, buttai giù un paragrafo con la macchina da scrivere e lo cestinai subito dopo. La quarta notte iniziai un nuovo racconto”. La scrittura stessa diventa una chimera: le sue idee, i suoi soggetti (c’è da pensare anche lo stile) diventano sempre più astrusi e i rifiuti editoriali sono solo l’altra metà dell’inettitudine e del tempo perso. Anche perché Larry Brown smonta pezzo per perzzo il consunto cliché dello scrittore che beve per scrivere, che distrugge invece di creare, che finisce nei pozzi più orridi della vita invece di raccontarli (e basta). La realtà è un’altra e lo sa il protagonista di 92 giorni come lo sa (molto meglio) Larry Brown: “Se vuoi scrivere, devi cercare di chiuderti in una stanza e scrivere”. Senza birra, e magari con qualche idea in più. Non ci sono sconti di sorta: il fallimento si paga e alla fine l’alcol e le droghe non sono nemmeno gli eccessi caotici (e, volendo, divertenti) ma solo il triste doping di una caduta inarrestabile, una decadenza umana univoca, puntellata da rari momenti di commozione, ma in fondo anche con una certa dignità: “Non c’era nulla che potessi fare se non andare avanti. Avevo già fatto tutte le mie scelte”. Un piccolo libro, duro e grezzo come un diamante: bello e scomodo, come a suo tempo aveva capito (e apprezzato) lo stesso Dylan.
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