mercoledì 22 settembre 2010

Cormac McCarthy

Alla fine John Grady Cole è arrivato da qualche parte, in una Città della pianura che ha il compito di chiudere la famosa Border Trilogy di Cormac McCarthy, cominciata da Cavalli selvaggi e salita a livelli di assoluto lirismo in Oltre il confine. Tutta l'epopea della frontiera trova in Città della pianura una sorta di definizione antologica e panoramica di tutte le contrapposizioni tipiche della scrittura di Cormac McCarthy: ci sono le due lingue (l'inglese e lo spagnolo) che si alternano nei dialoghi, dando alla narrazione un ritmo unico;  ci sono gli uomini e gli animali, a volte addomesticati, a volte selvaggi, sia che si tratti dei primi che dei secondi; ci sono frammenti straordinariamente legati alla terra e alla natura e percezioni spiritate; c'è l'amore (che sembra lo spunto per concludere l'intera trilogia) e c'è la violenza; c'è il deserto e ci sono le Città della pianura. Fedele al suo compito conclusivo, il romanzo sembra contenere un po' sfumature di tutti i libri di Cormac McCarthy (compresi quelli estranei alla Border trilogy: per esempio, i racconti della rivoluzione messicana potevano stare benissimo in Meridiani di sangue e certi oscuri personaggi vivere a loro agio in Il buio fuori) e usa il confine, il border per unire, più che per dividere, perché John Grady Cole scopre l'amore e i suoi tormenti e, chissà, forse diventa uomo. L'immagine che rende l'idea è un passaggio che funziona da cardine in Città della pianura ed è anche un bell'esempio della magnifica scrittura di Cormac McCarthy: “Nell'alba fredda le luci erano ancora accese, laggiù, sotto la sagoma scura delle montagne, e contribuivano a creare quell'impressione di preziosa insularità comune a tutte le città del deserto. Un uomo camminava con un mulo stracarico di legna da ardere. In lontananza, le campane delle chiese avevano cominciato a suonare. L'uomo gli lanciò un sorriso d'intesa. Come se fra loro ci fosse un segreto, solo fra loro due. Qualcosa che aveva a che fare con l'età e i giovani e le loro richieste e quanto c'era di giusto in queste richieste. E nelle richieste che gli altri facevano pesare su di loro. Il mondo passato, il mondo a venire. La precarietà che condividevano. E sopra ogni cosa una profonda, profondissima consapevolezza del fatto che bellezza e perdita sono tutt'uno”. Questo vale anche per la Border Trilogy: Cavalli selvaggi e Oltre il confine sono stupendi (soprattutto il secondo), ma la loro bellezza andrebbe perduta senza Città della pianura, che li ha rischiarati di una nuova, vivissima luce. Lo schema del viaggio, con la stessa progressione del volto di Borges, prende la forma di un disegno della vita, ma, come si legge nella liricissima coda finale di Città della pianura “la nostra mappa non sa nulla del tempo. Non ha la capacità di parlare nemmeno delle ore implicite nella sua stessa esistenza. Non di quelle che sono trascorse, non di quelle a venire. Eppure nella sua forma conclusiva la mappa e la vita che essa rappresenta devono convergere, perché lì il tempo finisce”. E’ tutto quello che sappiamo, “eppure è tutto ciò che abbiamo”. Un momento, un ricordo, un frammento, un punto di domanda sul labile border della vita.

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