mercoledì 22 settembre 2010

Philip Roth

La trilogia di Philip Roth sull'America del ventesimo secolo finisce con un'ombra cupa ed enigmatica. Cominciata con il grande affresco di Pastorale Americana, seguita poi con l'interlocutorio Ho sposato un comunista, si conclude in modo egregio con La macchia umana, romanzo enigmatico e spigoloso che, oltre a definire e circoscrivere l’American Trilogy di Philip Roth, sintetizza anche tutta la natura del suo narrare e del suo scrivere. Gli eventi si svolgono in quella particolare “estate in cui il pene di un presidente invase la mente di tutti e la vita, in tutta la sua invereconda sconcezza, ancora una volta disorientò l'America”. Ogni riferimento a Bill Clinton e relative abitudini sessuali, attenzione, non è casuale: tutto comincia per caso, quando Coleman Silk, stimato accademico entra in un vortice di delirio (collettivo) e follia (privata) per aver chiamato spooky, spettri, due allievi che non si sono mai presentati alle sue lezioni. La parola che lo tradisce ha anche un risvolto razzista e, guarda caso, gli assenti sono di colore. Un doppio senso è la scintilla e nell'ipocrisia tutta Americana del politically correct un'errore così si paga all’infinito e per Coleman Silk è soltanto l'inizio. Tutti gli altri retroscena e lo sviluppi de La macchia umana è giusto che sia Nathan Zuckerman, amico di Coleman Silk e da tempo fedele alter ego di Philip Roth, a raccontarli e tocca al lettore scoprire, lentamente, l'intricata rete di emozioni, valori, impressioni, dialoghi, scelte e segreti che si nasconde nelle sue pagine. Così alla luce del romanzo che chiude la trilogia, diventano chiari anche gli intrecci del secondo, complesso capitolo, Ho sposato un comunista, che aveva il merito di contenere un po’ il succo di tutta la vicenda perché, come appunto scriveva Philip Roth per l'occasione, “forse, a dispetto dell'ideologia, della politica e della storia, ogni vera catastrofe è, nel nocciolo, sempre un patetico dramma personale”. Il secondo capitolo spiega il terzo, nel primo germogliano gli altri due e alla fine, nel complesso, offrono una monumentale possibilità per pensare, attività, come dice Philip Roth, che ormai è fuorilegge. La postilla finale è anche una (straordinaria) celebrazione della scrittura e della visione di Philip Roth quando scrive: “Noi lasciamo una macchia, lasciamo una traccia, lasciamo la nostra impronta. Impurità, crudeltà, abuso, errore, escremento, seme: non c’è altro mezzo per essere qui. Nulla a che fare con la disobbedienza. Nulla a che fare con la grazia e la salvezza o la redenzione. E’ in ognuno di noi. Insita. Inerente. Qualificante. La macchia che esiste prima del suo segno. Che esiste senza il segno. La macchia così intrinseca che non richiede un segno. La macchia che precede la disobbedienza, che comprende la disobbedienza e frustra ogni spiegazione e ogni comprensione. Ecco perché ogni purificazione è uno scherzo. Uno scherzo crudele, se è per questo. La fantasia della purezza è terrificante. E’ folle”. Una trilogia che si può leggere anche come un triangolo, a partire dal suo vertice più luminoso e intenso, Pastorale americana (con Underworld di Don DeLillo, una delle poche letture davvero indispensabili degli ultimi anni del ventesimo secolo) e che La macchia umana, già nel titolo, conclude non nel migliore dei modi, ma nella maniera più adeguata, raccontando come “la nostra comprensione della gente dev'essere sempre, per forza, nel migliore dei casi, difettosa”. Nel paese della perfezione e del successo, dove una bugia a sfondo sessuale è più pericolosa di un arsenale atomico out of control, è una scoperta epocale. 

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