sabato 9 febbraio 2019

Colson Whitehead

La ferrovia sotterranea è l’effetto visivo e letterario di una strabiliante rifrazione. È esistito davvero un tracciato che gli schiavi chiamavano ferrovia ed era fatto di case ospitali, punti d’incontro, nascondigli, pertugi e sentieri sicuri che portavano i fuggiaschi verso la libertà. Quindi una ferrovia nominale, ma reale. La ferrovia sotterranea, con tanto di binari, banchine, vagoni e locomotive esiste soltanto nel romanzo di Colson Whitehead, ma tutto il resto, ovvero la schiavitù, è esistito davvero nell’’ineluttabilità dei sui corollari, il razzismo, la violenza, e l’inevitabile fatalismo (come pensa Cora, la giovane protagonista: “Aveva la pelle nera, ed era così che il mondo trattava i neri”), come conseguenza della disperazione. Colson Whitehead mette a servizio di una realtà storica inoppugnabile, quella degli Strange Fruit di Billie Holiday che penzolavano dagli alberi e di uomini o donne trattati come merce e/o proprietà, una narrazione movimentata, serrata nei ritmi, immaginifica nelle soluzioni e tutto sommato brillante,  tenendo conto del peso che si porta sulle spalle. Il romanzo si consuma da solo, Cora è un personaggio che spicca con la sua tenacia, aggrappata alla vita non meno che all’idea di una libertà che non ha mai conosciuto. Il suo blues è senza fine, condito dallo strazio continuo della perdita che la pedina più dei cacciatori di taglie, Ridgeway su tutti. La predilezione di quest’ultimo per Cora ha una motivazione lontana: la madre, Mabel, è l’unica fuggitiva che non è riuscito a riportare al suo posto, nella piantagione dei Randall. È un tarlo che lo consuma e che tocca anche a Cora perché, nello specifico, fuggendo Mabel l’ha abbandonata a se stessa e quella ferita brucia ancora, anche se invisibile perché “c’era una gerarchia del dolore, dolore nascosto dentro altri dolori, e bisognava tenerne sempre conto”. Tutti questi sentimenti rimangono schiacciati dalla violenza (feroce e sadica) dei Randall che, nei fatti, dispongono di vita e di morte sui loro schiavi. Sognare la fuga è già un rischio, condividerne le intenzioni con qualcun altro è temerario ed è quello che succede a Cora e Caesar. Andarsene non è dissimile dal suicidio (una scelta non rara tra gli schiavi) e nel migliore dei casi è un esodo di proporzioni bibliche. Ogni tappa prevede una prova da superare: la palude e il terrore dei mocassini acquatici, le ronde e l’indifferenza, persino lo sguardo degli altri schiavi perché “vedere un’altra persona in catene ed essere felici di non averle addosso: era questo il massimo della fortuna concessa ai neri, definita da quanto peggiore poteva essere la loro sorte in qualsiasi momento. Se gli sguardi si incrociavano, tutti e due distoglievano gli occhi”. Inoltre, per sopravvivere Cora e Caesar devono anche trasformarsi in assassini perché la legittima difesa, come ogni altro diritto, non è considerata per gli schiavi, figurarsi per i fuggiaschi che, al momento di sparire, hanno decretato la loro condanna a morte. Quando Cora e Caesar giungono alla ferrovia sotterranea e prendono il primo treno di passaggio, varcano una nuova realtà dove speranze e pericoli convivono in un precario equilibrio, viaggiando paralleli proprio come le rotaie su cui stanno fuggendo. Cora è l’immagine vincente di “una rivolta fatta da una persona sola, ma, contando la madre, qualcuno si chiede:  “Se due donne erano una falla, una comunità cos’era?”, ed è il motivo per cui la caccia non finisce mai. È così  che Cora è avvolta da quella sensazione “che fosse nei campi, nel sottosuolo o in una soffitta, l’America continuava a tenerla prigioniera”: una nazione, ricorda spesso Colson Whitehead, nata del sangue, prima quello degli indiani, poi quello degli africani, e rimasta “un fantasma nell’oscurità”. I toni apocalittici, a tratti persino gotici, sono ben rappresentativi in un affresco solido, intenso e torbido della schiavitù che con La ferrovia sotterranea trova sia una sorta di ritratto definitivo sia la sua nemesi, che Colson Whitehead celebra così: “Chi diventi, dopo aver realizzato un’opera così magnifica? Nel costruirla ci hai anche viaggiato sopra, fino a sbucare dall’altra parte. A un capo della linea c’è la persona che eri prima di scendere sottoterra, all’altro capo viene alla luce una persona nuova. Il mondo in superficie dev’essere così banale in confronto al miracolo che c’è sotto, il miracolo che hai compiuto tu, col tuo sudore e il tuo sangue. Il trionfo segreto che ti porti nel cuore”. Il tributo è destinato a tutti gli uomini e le donne di buona volontà che costruirono La ferrovia sotterranea, con la consapevolezza che “il mondo può anche essere cattivo, ma le persone non devono esserlo per forza, possono rifiutarsi”, ma leggendolo in filigrana potrebbe anche essere un omaggio al lavoro dello scrittore in sé, e se lo merita tutto.

Nessun commento:

Posta un commento