sabato 2 febbraio 2019

Stephen Cooper

Stephen Cooper, a cui si deve anche la scoperta dell’ultima raccolta di inediti di John Fante, La grande fame, ha colmato con Una vita piena un vuoto che il grande narratore americano non meritava. Perché la sua personalissima storia vale almeno quella di Arturo Bandini e Stephen Cooper si è premurato di seguirne il tortuoso percorso coinvolgendo gli stessi famigliari di John Fante. Un lavoro accurato, ma capace di schivare gli abbagli agiografici o la pedanteria dei fans. Ne esce un ritratto fedele e appassionato, ma anche rigoroso e scrupoloso, capace di mettere sulla stessa linea l’uomo, i suoi racconti e romanzi, il rapporto con il cinema, le questioni domestiche e la scrittura, i successi e i fallimenti (“Fallire può essere positivo. Non è una di quelle cose che ti distruggono, ma che ti ispirano, spingendoti a continuare. Il fallimento è una sfida. Fa bene. In un campo in cui gli strumenti di lavoro sono carta e penna, che cosa c’è da perdere? Mi piace perdere. C’è sempre da imparare”). Leggendo Una vita piena si capisce anche quello che intendeva dire uno degli alter ego di Charles Bukowski, che Stephen Cooper cita direttamente da Donne, nel descrivere John Fante: “Emozione totale. Un uomo davvero coraggioso”. Anche per questo Una vita piena è un libro molto interessante sia quando esplora la carriera e il talento di John Fante (“Scrivere sceneggiature era più facile e redditizio: l’unica cosa che viene richiesta all’autore è di tenere in movimento i personaggi. La formula è sempre la stessa: conflitti e scopate. Una volta finito, consegni tutto a qualcuno che lo fa in mille pezzi cercando di tirarne fuori un film. Ma scrivere un romanzo è tutta un’altra cosa. Non sei solo lo scrittore, anche il protagonista, il regista, il produttore e il cameraman. Se la tua sceneggiatura non funziona puoi la colpa a molte persone, a partire dal regista. Ma se il tuo romanzo non decolla, sei l’unico responsabile”), sia quando ne affronta il lato più intimo e umano, compreso il doloroso e tristissimo finale. Stephen Cooper lo racconta con il rispetto dovuto, ma anche cogliendo ogni singolo particolare, come comunque succede anche nel resto di Una vita piena: le origini italiane, il viaggio verso la California, l’istinto di “scrivere, scrivere, scrivere”, la malinconia degli ultimi giorni, le inutili giornate all’ospedale, la genesi di Chiedi alla polvere, Los Angeles (“Questa è la migliore città degli Stati Uniti in cui oziare, ma piena di truffatori e bugiardi, che cercano di guadagnare soldi facili e chiedono avidamente senza dare nulla in  cambio”), Hollywood e Bunker Hill, le corrispondenze e le intemperanze. La voce di John Fante risuona spesso e volentieri nella ricostruzione di Stephen Cooper e il suo stile si nota dalle note private (“Stiamo come può stare una famiglia che vive in una casa sugli alberi vicino alla bocca di un vulcano attivo”) alle cupe (o forse soltanto troppo realiste) paranoie che gli facevano dire: “Amo la guerra, il caos, le cupe predizioni sulla fine della nostra civiltà”. Avrebbe dovuto vivere fino ad oggi, per vedere come siamo finiti.

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