sabato 4 febbraio 2017

Lou Reed

C’è una sintonia, una coincidenza anche nei tempi, nella lettura che Lou Reed ha dato di Edgar Allan Poe, riconosciuto fin dall’incipit dell’introduzione a The Raven come “il più classico degli scrittori americani, uno scrittore paradossalmente più in sintonia col battito cardiaco del nostro secolo appena nato di quanto non lo sia mai stato con quello del proprio”. Un precursore, senza ombra di dubbio, che Lou Reed presenta, “non proprio come il ragazzo della porta accanto” e, con maggiore precisione, come uno scrittore che “vi racconta storie dell’orrore per poi giocare con la vostra mente”. La definizione si sovrappone a quella di un altro adepto, Stephen King: “Forse il miglior racconto del male che abbiamo dentro è Il cuore rivelatore di Poe, dove l’assassinio viene perpetrato per il puro piacere del male, e non vi è alcuna circostanza attenuante a smorzarne il gusto appassionato. Poe ci invita a vedere nel suo narratore un folle, perché, se teniamo alla salute mentale, dobbiamo pensare che un male così perfetto e gratuito è folle”. Prendendosi qualche libertà in più, Lou Reed tende ad andare oltre, avvicinandosi piuttosto alla descrizione di D. H. Lawrence: “Tutte quelle storie sotterranee altro non sono che il simbolo del subcosciente. Mentre alla superficie tutto è limpido e chiaro, sotto non v’è che quell’orribile, estremo, criminale desiderio di seppellire persone vive”. The Raven è tutto concentrato su quella lotta, senza l’intenzione di risolverla o di comporla. Scrive ancora Lou Reed: “Nella mia testa Edgar Allan Poe è il padre di William Burroughs e di Huber Selby. Cerco sempre di adattare il loro sangue alle mie melodie. Perché facciamo quello che non dovremmo fare? Perché amiamo quello che non possiamo avere? Perché abbiamo sempre una gran passione proprio per la cosa sbagliata? E che cosa intendiamo per sbagliato?”: sono proprio questi interrogativi che costituiscono il nucleo pulsante dell’interpretazione di The Raven. Si tratta di temi costanti nella storia di Lou Reed visto che in tutti i personaggi delle sue canzoni “c’è un conflitto e cercano di risolverlo”. Un indizio lo si trova sul finire di The Raven: “Agiamo per la ragione per cui non dovremmo agire. Per certe menti questa è una tentazione assolutamente irresistibile. La convinzione del torto o della inopportunità di un’azione è spesso una forza invincibile. E’ un impulso primordiale”. Lou Reed ha compreso Edgar Allan Poe nello stadio più profondo per cui, benvenuti, e “che serata di gala, un pubblico magico e in ghingheri affolla il teatro per assistere a un dramma di speranze e paure, mentre l’orchestra a tratti sincopati dà fiato alla musica delle sfere”, ed è solo l’inizio con cui Il verme trionfante inaugura una festa di misteri e di fantasmi dove “il suono e la musica ci portano alle parabole gemelle dell’esperienza. Intrecciati come fratello e sorella si liberano del contatto corporeo e danzano in un’orgia pagana”. Lì in mezzo, Lou Reed è nel suo elemento perché “la musica è un riflesso del nostro io profondo, senza filtri il dolore tocca le corde capricciose. La mente capricciosa si confonde con il futuro che essa stessa prevede e si ripiega su di sé con ribrezzo e terrore. Con la premeditazione o con il semplice pensiero siamo condannati a conoscere la nostra fine”. Senza la musica, Lou Reed alias Edgar Allan Poe deve ammettere che “la mente che cede di notte ai rimorsi” non lascia scampo ed è abitata da “fragore di metallo sbattuto e riverberi attutiti”, “rumore di una moltitudine urlante e di tempesta” e dal “suono d’un incendio; un forte battito cardiaco”, come pare inevitabile. Stephen King l’aveva capito fin dall’inizio: “Il terrore è il suono del battito continuo del cuore del vecchio in Il cuore rivelatore”. Non ci sono alternative al “terribile silenzio”, niente che le parole, scritte o recitate, possano fare. Forse il sassofono di Ornette Coleman, ma non tutti possono permetterselo.

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