martedì 15 giugno 2010

Don DeLillo

Un cantautore che da sempre vive a New York, Willie Nile, ha saputo descrivere i giorni che viviamo in una canzone elettrica, amara e dolorosa il cui titolo, Cell Phones Ringing (In The Pockets Of Dead) è tanto surreale quanto esplicito. Lo stesso effetto, quello di raccontare quella strana cosa che ormai è diventata la realtà con uno sguardo obliquo, sghembo, quasi onirico lo fa L'uomo che cade di Don DeLillo. Forse proprio per questo approccio indiretto, a tratti persino dadaista, la visione di Don DeLillo degli eventi storici dall'11 settembre 2001 in poi è tra le analisi più lucide di come e quanto quegli stessi eventi abbiano inciso sulle nostre vite, sul nostro modo di pensare. "C'è l'evento, il fatto specifico. Misurare quello. Lasciare che ci insegni qualcosa. Vederlo. Porsi sul suo stesso piano" scrive Don DeLillo ed è qui, come i cellulari che suonano nelle tasche dei morti, che certi arcani vanno sviluppati. E Don DeLillo sa che anche di fronte alla peggiore catastrofe "Noi vogliamo trascendere, vogliamo oltrepassare i limiti della comprensione innocua, e quale modo migliore di farlo se non tramite la creazione di fantasia". A New York City, dopo l'11 settembre 2001, le risorse dell'immaginazione e dell'immaginabile sembrano non bastare, ma ai bambini, che sono protagonisti di un percorso parallelo e contiguo che scorre nell'underworld di questo romanzo, basta deformare un nome preso dall'aria nera della realtà per ottenere Bill Lawton, l'emblema di tutte le paure, degli allarmi, delle paranoie, dei mostri nascosti nel buio e nella coscienza. Sono quelle le piccole soluzioni, cambiare un nome per cambiare una percezione, che servono ad arrivare a tracciare "una piega profonda nella trama delle cose, nel modo che hanno le cose di attraversare la mente, nel modo che ha il tempo di oscillare nella mente, che è poi l'unico posto in cui esiste in maniera significativa". Mettere in gioco le parole o il proprio corpo, come fa l'uomo che cade, dall'11 settembre 2001 non è più e non è soltanto un'arte o un modo per non "sprofondare nelle nostre piccole vite", ma è un esorcismo per salvaguardare quello che ci portiamo dentro, che poi è tutto quello che conta. Il senso di smarrimento nelle strade di New York di Willie Nile e Don DeLillo o Patti Smith o Bruce Springsteen, per citare altri due artisti che si sono spesi nel cercare di sviscerare quei drammatici e lugubri momenti non è soltanto personale ("Continuo a ripetermi che sono proprio qui. Non ci si crede. Trovarsi qui e vedere tutto questo") o storico (è lapidario Don DeLillo quando scrive: "Presto verrà il giorno in cui nessuno più penserà all'America, se non in virtù dei pericoli che crea. Sta perdendo la sua centralità. Sta diventando il centro della sua stessa merda. E' l'unico centro che occupa"). Dovrebbe essere anche filosofico e in modo pungente quando dichiara che "la verità era condannata a un lento e inevitabile declino", ma questa, dentro un romanzo denso di riflessioni e mappe mentali, è soltanto un'amara resa davanti a un mondo in cui gli aerei entrano nei palazzi e i cellulari suonano nelle tasche dei cadaveri. New York, America, all'inizio di un nuovo secolo di morte.

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