L’ouverture del Potere del cane non poteva essere più eloquente. Sulla scena di una strage efferata e spietata il protagonista, Art Keller, trova dei bossoli. Sono di cuernos de chivo vale a dire le corna di capro, il nome che sul border prende l’AK47, ovvero il Kalashnikov, per via della caratteristica forma ricurva dei suoi caricatori. L’arma più diffusa al mondo, di gran lunga la preferita da narcotrafficanti e guerriglieri nell’incipit del Potere del cane ha l’evidenza simbolica di chiarire fin dall’inizio che quella che si sta combattendo nella “borderland”, come l’ha chiamata Tom Russell, è una vera e propria guerra. Anche se non ci sono corpi d’armata, fronti e manovre e nemmeno abili e prezzolati comunicatori a definirla una guerra asimmetrica (come se ne esistesse una simmetrica e corretta), quella raccontata dal Potere del cane è una guerra vera e propria e come diceva il massimo esperto di argomenti bellici, Karl Von Clausevitz: “La guerra è un atto di violenza, e non si danno limiti alla manifestazione di tale violenza”. La guerra comincia come vendetta perché “sono poche le cose che prendiamo sul serio da queste parti, ma la vendetta è una di quelle”. Art Keller vuole vendicare il suo compagno di scorribande, ma oltre a scontrarsi con il residuo senso di giustizia che gli rimane e che forse lo rende più debole degli altri (“Sei troppo tenero. Vuoi la vendetta, ma non sei abbastanza uomo da prendertela. Devi mascherarla con questa mierda del giusto processo. Sparargli sarebbe molto più facile”) deve vedersela con un magma caotico di relazioni, legami e intrighi. E’ una guerra senza esclusione di colpi, senza rispetto per gli innocenti perché chiunque è un bersaglio e i “Sinaloa cowboys” su un lato o l’altro del border non si risparmiano nessun tipo di crudeltà e tanto i gringos quanto i chicanos si deliziano con torture, massacri, sparatorie ed esecuzioni che al confronto Quentin Tarantino è il chierichetto più timido e gentile della parrocchia (con tutto il rispetto). Dato che, come diceva William Burroughs, “c’è un solo gioco da giocare, ed è la guerra” in realtà le partite sono molteplici e scatenare una guerra è scatenarne infinite perché la guerra dovrebbe essere sempre declinata al plurale. Le guerre in Messico vengono ripartite anche tra le diverse gang e le ramificazioni delle forze di polizia. Su al Norte la situazione è più complicata e intricata perché i traffici d’armi, di droga e di valuta (che, sembra di capire dal Potere del cane, funzionano tutti insieme) interessano DEA, FBI, CIA, NSA e ad ogni sigla corrisponde un motivo particolare per combattere, forse anche una vera e propria guerra a parte. L’arma segreta, in queste guerre “così vecchie, così morte” come le ha definite Don DeLillo, non è l’AK47, ma sapere usare i legami, le relazioni, i sentimenti per raggiungere gli obiettivi: un tradimento, una fuga e la vendetta che, a dispetto del luogo comune, qui viene preferita calda, caliente, bollente. Il vero Potere del cane fa perno sull’amore e sul sesso e non è un caso che le scene erotiche riportino il sesso ad una dimensione oscura e vitale, come direbbe Jim Harrison, scardinando quella visione patinata, banale e piuttosto triste che ci hanno propinato in questi anni. Qualsiasi scrittore sa che uno dei passaggi più difficili, se non il più difficile in assoluto, è quello di raccontare una scena di sesso e Don Winslow non solo dimostra di avere grande dimestichezza, ma ne fa degli episodi significativi, spesso e volentieri posti a cardine dello svolgersi delle storie. Lo stesso vale per il territorio e il paesaggio, a partire dalla Southern California. Una macchia che si allarga e che contiene tracce di molti mondi, come ha notato Don Winslow, che peraltro vive e lavora a San Diego: “Sono affascinato dalla Southern California per la sua diversità geografica, culturale, economica ed etnica. E’ anche dove i sogni americani vanno a finire, dove la gente va per reinventarsi e poi ci sono orizzonti di una straordinaria bellezza”. Sembra fargli eco Bruce Springsteen: “In California c’era come la sensazione che si stesse formando un nuovo paese ai confini di quello vecchio”. Il grande enigma del border, inteso non soltanto come il confine che divide gli Stati Uniti dal Messico ma anche come la frontiera che li unisce in una sola America è una fonte d’ispirazione comune perché Il potere del cane cela, tra le righe (ma nemmeno troppo), un sacco di agganci alla parte più desertica e noir di The Ghost of Tom Joad (Balboa Park, Across The Border, The Line, Straight Time) e allora, sì, ha ragione Don Winslow quando scrive: “Ci sono un mucchio di fantasmi a questa festa”. Deve essere una fiesta d’addio.
Nessun commento:
Posta un commento