giovedì 17 giugno 2010

Peter S. Beagle

Di viaggi “coast to coast” si è nutrita all’infinito la narrativa americana e per molti basta e avanza il biglietto di sola andata. La “lunga strada da fare” di Peter S. Beagle è un caso a parte. Peter e l’amico Phil partono da New York, destinazione  San Francisco, seguendo (molti anni prima di William Least Heat-Moon) le “strade blu”, le vie secondarie nelle mappe americane che allineano, come in una catena di visioni, una “smalltown” dopo l’altra. La scelta dello scooter è dovuta un po’ al fatto che i soldi sono quelli che sono (pochi) e un po’ al fatto che almeno per una buona metà dei viaggiatori quella traversata non è senza meta o scopo. Peter è atteso da Enid, sua futura moglie, e da un pargolo in arrivo. Phil, che lo segue senza esitazioni, ha solo il viaggio che diventa un rito di passaggio, quasi il presagio di un’amicizia che finirà e con essa anche tutto un tempo. “Ognuno porta sempre con sé ciò che desidera” e per una buona metà della “lunga strada da fare” non è facile scrutare nelle emozioni e nelle suggestioni che anima Peter e Phil. I due viaggiatori hanno molto da fare. Cantano, dipingono, prendono appunti. Devono far fronte alle necessità degli scooter, alle intemperie, agli enigmi degli incontri (specie quando è la polizia a beccarli) e devono inventarsi il pane quotidiano perché “vedere il mondo e suonare la chitarra è un duro lavoro”. La narrazione è una collezione di piccoli episodi, un diario di arrivi e partenze, di paesaggi che scorrono infiniti (“Se guardi abbastanza a lungo anche il paesaggio più spoglio, puoi trovarci i colori più straordinari: rosso fuoco, grigio argentato, rosa sopra ogni tronco d’albero, o improvvisi fili d’erba che sembrano quasi bianchi”) e di una percezione che ha il sapore di una consapevolezza ancora acerba (“Ci fermiamo prima del tramonto perché si prova una strana solitudine guidando una cosa così piccola come uno scooter quando viene buio. Il freddo inizia a radicarsi nei nostri corpi come un fiore notturno e ci sentiamo soli, come se l’altro non fosse lì e non avessimo nessun posto dove tornare, più smarriti di quanto la lontananza da casa renda plausibile”). Gioca il suo ruolo anche il fatto che è la primavera del 1963: molte speranze e molti sogni stanno ancora germogliando, l’autunno è ancora lontano e Peter e Phil hanno la sensazione di seguire una moltitudine di compagni di viaggio, almeno fino a quando qualcosa tra loro non s’insinua, ed è per sempre. “Perché ti sei messo a pensare al dopo così all’improvviso? Che cos’è, un piccolo sabotaggio della quinta colonna?”, si chiedono quando ormai il viaggio è giunto ad un punto di non ritorno. Il “dopo” è il vero capolinea del viaggio attraverso l’America quel dopo in cui “si esauriscono le canzoni da cantare, i giochi da fare, le poesie da ricordare, gli interrogativi sulla vita sessuale. Si comincia a pensare a se stessi e alle proprie ragioni e le domande crescono lentamente dentro di te, come le zanne di un cinghiale”. La primavera degli scooter sfiorisce e viene la stagione dei rimpianti, delle diatribe, dei rancori e delle malinconie. Viene il “grande freddo”, e buonanotte ai suonatori. 

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