giovedì 24 giugno 2010

Steve Earle

Cambiano gli strumenti, dal rock’n’roll alla short story, ma le prospettive di Steve Earle rimangono quelle, solidissime, di un ribelle con molte cause per cui battersi. È un outsider che canta e scrive per gli outsider perché, come spiega con una certa eloquenza, in La valigia rossa: "Quasi tutti viviamo vite tra parentesi, esistenze comodamente racchiuse entro i confini di un’era delineata nettamente. Di tanto in tanto, tuttavia, per pochi sfortunati tra noi, tutto quanto cambia mentre siamo ancora in servizio. Un pezzo della piramide che con cura abbiamo costruito generazione dopo generazione viene estirpato dalla base senza troppi complimenti, e nulla è mai più come prima, si fa tabula rasa e si allestisce il palco per qualcosa di totalmente inatteso". È l’identikit fondamentale dei personaggi di tutti i racconti raccolti in Le rose della colpa: può cambiare la fisionomia, il paesaggio attorno o qualche dettaglio, ma i protagonisti hanno pescato la carta sbagliata nel mazzo, hanno scelto il momento peggiore per fermarsi sul bordo di una strada, si sono ritrovati nella parte sbagliata della città. E’ ovvio che il lieto fine è escluso a priori: all’appello manca solo Billy Austin (l’omonima canzone, su The Hard Way, era già una short story compiuta), però la galleria di loser che Steve Earle mette insieme in Le rose della colpa colpisce per l’amara lucidità con cui le racconta. Non è uno scrittore particolarmente evoluto (sappiamo benissimo che il suo lavoro è un altro), però è sanguigno, diretto e sincero quanto basta anche quando si tratta di affrontare argomenti che hanno più di un risvolto autobiografico. Quando tratteggia il fantasma della tossicodipendenza in Una sorta di elogio funebre ("Harold Mills è morto la scorsa notte, solo nella sua stanza da 75 dollari la settimana al Drake Motel, e io sono probabilmente l’unico coglione di Murfreesboro Road che ne sente la mancanza. Ma è anche vero che sono l’unico a sapere che se n’é andato"), Steve Earle sembra guardare nel buio dei suoi anni più cupi e lo fa senza moralismi, senza ipocrisie e fa ammettere candidamente al protagonista della short story che nemmeno andrà al funerale dell’amico che ha visto portare via sotto un lenzuolo perché "Nessuno di noi, le creature che hanno conosciuto Harold qui sulla statale, ci andrà, perché i funerali, come si suol dire, sono fatti per i vivi e noi siamo già morti. Stiamo solo aspettando il nostro turno". Crudo, realistico e durissimo, anche quando affronta l’episodio, a sfondo razziale, di Taneytown (che è la short story da cui è nata l’omonima canzone di El Corazon): un ragazzo di colore scende giù in città, si trova nei guai e per difendersi uccide un coetaneo bianco. Riesce a dileguarsi e a tornare nella sua valle, mentre gli abitanti di Taneytown trovano un colpevole (nero, ovviamente) e lo linciano al posto suo. Non manca un riferimento esplicito al rock’n’roll e al music business di Nashville: in Billy The Kid, Steve Earle narra la storia del più straordinario disco che sia mai uscito dagli studi della città. Billy The Kid, questo il nome del songwriter che l’aveva inciso, stava vivendo il suo sogno fino a quando il destino non ha cambiato radicalmente la sua strada. Il finale ha due tempi: il primo, s’intuisce subito, è tragico; il secondo è agrodolce e molto, molto pertinente a ciò che il music business è diventato oggi. Scopriteli da soli e seguite il consiglio di Steve Earle quando vi farà da anfitrione a Nashville: "Fatevi un giro nel Music Row. Se avete la patente, abbandonatevi a quelle stradine a senso unico, e vedrete che non farete altro che girare in tondo. Vedrete ciò che si vedrà dal vostro parabrezza: vetro e mattoni, asfalto e cemento. Se siete a piedi potrete avvicinarvi al marciapiede, a quel luogo dove la musica è ed è sempre stata. Se camminate lentamente, potreste addirittura imbattervi in un brutto bar imbiancato e col tetto piatto quasi invisibile all’ombra dei giganti che gli sono spuntati da entrambi i lati. Fermatevi a bere una birra. Datevi un’occhiata intorno. Non è niente di che, ne convengo. Però concedetegli lo stesso una chance. Ascoltate il jukebox. Potreste sentire gli echi di ciò che questa città è stata un tempo". Le rose della colpa (di cui segnaliamo anche Il testimone, La danza del giaguaro e La rimpatriata) non fanno altro che espandere quello che già avevamo intuito ascoltando Steve Earle: con ogni probabilità non sarà mai un grande scrittore, ma è e resta, su disco e su libro, uno splendido storyteller. Forse è anche meglio così perché, come confessa platealmente in L’Internazionale, "Mai innamorarsi di uno scrittore, chéri, specie se di talento. Gli scrittori si vantano delle loro imprese amorose, in pubblico come in privato. Vai a letto con uno di loro, e tutti i suoi amici verranno a fare la fila alle sue spalle. Se poi ti innamori di lui, come prima cosa ti spezzerà il cuore, e quindi trasformerà il tuo dolore in inchiostro per macchina da scrivere. A quel punto comincerai a vivere nel terrore del giorno in cui verrà pubblicato. Conviene di più amare un pessimo scrittore, che si porterà i tuoi segreti nella tomba. O, meglio ancora, un rivoluzionario. I rivoluzionari sì che sanno mantenere i segreti. Devono. Per loro è questione di vita o di morte". La differenza, per Steve Earle, è tutta qua: le sue canzoni, le sue short stories (che vivono in simbiosi e si trasformano le une nelle altre per osmosi) sono state più di una volta la sua ultima chance. Anche solo per questo, Le rose della colpa merita un posto speciale accanto ai suoi dischi e vicino ai libri di quegli scrittori che sanno che la storia è tutto, ma la vita di più.

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