sabato 1 luglio 2017

Jack Kerouac

In una missiva a John Clellon Holmes del 1952, Kerouac scriveva che “se tutte le parole umane potessero essere scritte su quest’unica pagina, le scriverei”. Le sue lettere, raccolte da Ann Charters (in due volumi), sono la testimonianza dei ripetuti tentativi di giungere a quell’ambiziosa meta. Kerouac è candido e si mostra in tutte le ambizioni (“Ho cominciato a lavorare al grande romanzo la mia ultima chance”) e le debolezze, senza nascondersi. Contraddittorio, stralunato (“Ho tante cose da dire che mi confondo” scrive nel 1941 alla sorella), è sempre “nel bel mezzo di folli straordinari eventi”, spesso sottolineati dagli sbalzi di umore. Nell’agosto del 1955, dal Messico, confessa ad Allen Ginsberg: “Mi sento allo sbando, effimero, inconcepibilmente triste, non so dove vado, né perché”. Sei mesi dopo annuncia a Gary Snyder, da qualche parte in America: “Poi ci toglieremo il cappotto e distruggeremo di nuovo il senno, e andremo al diavolo con tutto il resto, fuori dai piedi accidenti, mangeremo e ci sarà molto di più là da dove arrivò anche se siamo dei veri e propri poveri sciocchi immacolati”. La logica della prima persona plurale ricorre con una certa frequenza. In una delle prime lettere, nel 1941, scrive a proposito di un gruppo di amici di Boston: “Siamo sconosciuti, e probabilmente non sfonderemo mai, ma le nostre discussioni sono molto accese e siamo pieni di stimoli intellettuali”. La definizione si presta anche per tutti gli epigoni della Beat Generation evocati lettera dopo lettera: per quanto parziale sia la ricostruzione della corrispondenza di Jack Kerouac rende già l’idea della fitta rete di amicizie, di connessioni, incroci. L’inventario comprende un ritratto di Neal Cassady tra parentesi, “(Come al solito Neal non ha fatto niente, proprio come nel mio sogno, è arrivato come un fulmine a Città del Messico e come un fulmine se n’è andato con la sua erba”), uno esplicito di William Burroughs (“Un folle genio”), l’idea di usare Un romanzo moderno come sottotitolo di Sulla strada, in omaggio al “modern jazz”, Miles Davis e Billie Holiday, i dettagli delle tappe di un vagabondo irrequieto ed entusiasta, annoiato e innamorato, un hobo che dice di aver “chiuso” con l’America mentre non smette nemmeno per un istante di cantarla. Se le lettere sono messaggi, segnali di fumo, avvisi di arrivi e di partenza, strumenti utili per continuare il viaggio (come chiedere i soldi alla mamma), per mantenere i contatti con gli amici, e per i resoconti degli incontri e delle avventure, nell’insieme l’epistolario è molto più complesso di quanto appare a prima vista perché “ci sono stati meravigliosi sviluppi ingiustificati”, a partire dalla spontanea osmosi con i romanzi. La voce è inconfondibile, soprattutto quando Kerouac, imbattibile negli slanci più euforici, detta la linea senza un dubbio al mondo che sia uno: “Impara a battere mille parole al minuto, compra due registratori, sconvolgi le stupide leggi, frega i giudici, fomenta le rivoluzioni dalla tua soffitta, tira fuori tutto, porta tutto avanti, in alto, vinci, stelle. Ah, rivolgimenti, appendici, galassie, tempo, etichette, scatenato. Sì, adesso nei prossimi settanta milioni di anni scambiamoci di tanto in tanto lunghe folli lettere e raccontiamo tutto quanto (come dici) e questo non porterà niente di male accidenti”. Era il 12 ottobre 1955, da Berkeley, California, e lo scriveva ancora a John Clellon Holmes, anche se non è difficile immaginare che il vero destinatario fosse se stesso.

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