lunedì 24 aprile 2017

Philip Slater

L’assunto da cui si dipana l’analisi di Philip Slater è che la cosiddetta civiltà occidentale è da sempre espressione di un modello autoritario che viene confuso con un surrogato di democrazia. Philip Slater non pone questioni giuridiche, morali o politiche. Le analisi sono comportamentali, storiche e, in ultima istanza, antropologiche, perché “l’unica cosa sulla quale possiamo contare nelle vicende umane è che le cose cambiano e in democrazia cambiano più velocemente che in qualsiasi altra condizione, raramente nella direzione che ci aspettiamo e sempre in quella che dispiace a qualcuno. Il vivere in un contesto realmente democratico richiede un’accettazione costante del movimento e del cambiamento, un’abilità ad accettare l’imperfezione permanente, lo sviluppo cronico. Questo, d’altronde, è ciò che realmente è la vita”. La prima distinzione, essenziale, è dunque tra la funzionalità dei regimi autoritari e quella dei sistemi democratici e Philip Slater comincia dagli sviluppi degli eventi bellici nel corso della storia per raccontarne la profonda influenza sul linguaggio e sull’immaginario in generale. Questo perché, come è ovvio, “la formazione militare, così come viene normalmente impartita, richiede la sistematica erosione di qualsiasi credo, valore e pratica democratica”. Nelle catene di comando e nella rigidità della disciplina, ci sono già tutti gli elementi di immobilismo dei sistemi autoritari visto che “una burocrazia è una burocrazia, e la sua inettitudine titanica la tradirà ovunque cerchi di nascondersi”. L’evidenza dei limiti autoritari, in tutti i segmenti scandagliati, dall’istruzione fino all’invadenza del mezzo televisivo, è ridondante e si scontra d’altra parte nell’esigenza del dissenso, perché, come scrive Philip Slater, “il conflitto è semplicemente l’espressione attiva della differenza, e una parte essenziale della nostra evoluzione”. Una precisazione si rende necessaria anche all’interno della concezione stessa di democrazia, che non è intesa come rappresentanza e/o mandato elettorale, ma piuttosto come “sistema di organizzazione delle relazioni umane”. Philip Slater non manca di sottolinearne le fragilità implicite, dato “la democrazia non ha niente a che fare con il carisma, le abilità oratorie, la capacità di stare dritti, saldi e al posto giusto; ha invece a che fare con la capacità di trovare modi per comporre i bisogni e i desideri conflittuali”, ma anche la naturale propensione al rinnovamento, alle trasformazioni, alla metamorfosi. Il suo modello di valutazione procede attraverso i vari livelli di attuazione e comprensione della democrazia, che rimane la grande incompiuta, ovvero Un sogno rimandato. La definizione del titolo riguarda in modo esplicito l’american way of life, ma in termini impliciti tutte le cosiddette democrazie occidentali, che vivono e subiscono le stesse contraddizioni e l’assuefazione alle logiche autoritarie, perché “il carattere multinazionale delle industrie moderne tende ad andare oltre l’influenza democratica, dato che nessun singolo governo può esercitare un effettivo controllo”. L’estrapolazione è più attuale adesso di allora anche se molte della valutazioni raccolte da Philip Slater erano valide nel 1991, in un momento di grandi speranze seguito al crollo del muro di Berlino, e lo sono ancora oggi visto che “una società democratica è decentralizzata, eppure la maggior parte dei nostri business quotidiani avviene all’interno di organizzazioni immense, turbolente e autoritarie, sulle quali non abbiamo quasi nessun controllo”. In concreto, quello che resta di Un sogno rimandato è solo “una democrazia parziale”, rispetto a un’idea molto più articolata, ovvero l’intuizione che non funzioni né come dovrebbe, né come ci viene propinata. 

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