venerdì 7 aprile 2017

John Updike

Nelle sue lezioni di letteratura Bernard Malamud diceva di John Updike che “una delle cose migliori che abbia scritto sia Il colpo di stato, una storia di invenzione ma basata su molte letture di miti africani, storia africana, geografia dell’Africa, oltre alla sua idea originale”. Ambientato in un immaginaria nazione subsahariana, il Kush alias il Noire, Il colpo di stato è imperniato attorno alle trame e alle peripezie del colonnello Hakim Felix Happy Ellelloû per cui vale la definizione di John Updike: “Un capo è uno che, per pazzia o per bontà, accetta di assumere su di sé i guai di un popolo. Vi sono pochi uomini così pazzi; di qui, quel nonsoché di irregolare che ha sempre un leader”. Le quattro mogli di Ellelloû distinguono anche le fasi, non lineari, in cui si articola Il colpo di stato: Kandongolimi, sposata all’età di sedici anni, Candace alias Candy il rapporto con l’America, attraverso la sua famiglia, poi Sittina e Sheba. A cui va aggiunta Kutunda, ammaliante e analfabeta, arriverà ai vertici del governo, dove intuirà che per il potere “leggere e scrivere era solo condiscendenza”. Il quadro in cui Ellelloû matura Il colpo di stato è questo, a cui vanno associate le circostanze specifiche dato che “l’aria del Kush è trasparente, non vi sono segreti, solo reticenze”. Ecco che Edumu, il re a cui tagliano la testa, e l’esecuzione del re, come spartiacque. Le motivazioni sono ambivalenti e adattabili, ogni volta che Il colpo di stato prevede nuovi protagonisti: “Il suo regime era corrotto, sia per quanto concerneva la sua personale tirannia, era sbadatamente crudele all’antica, sensuale maniera, sia per l’ideologia borghese dei suoi ministri, che, per conservare la loro ricchezza in seno a un’élite pateticamente non rappresentativa, vendevano agli americani ciò che i loro padri avevano venduto ai francesi, i quali, quanto a questo, credevano ancora di esserne padroni”. La confusione tra rivoluzioni di ispirazione religiosa o socialista sono fallimentari perché “ci vuole una montagna di mito per produrre anche un solo granello di differenza” e il ciclo si compie inalterato, non c’è vendetta, ci sono “riallineamenti”, e gli interessi stranieri, così riassunti: “I doni portano uomini, gli uomini portano fucili, i fucili portano oppressione. L’Africa ha già subito questo ciclo troppo spesso”. Il linguaggio forbito, colto, affascinante nella sua ricchezza, che John Updike trova sempre uno sbocco naturale nel ritmo delle frasi, negli strati della storia che scivolano uno sopra l’altro. Molto aderente alla realtà nel definire “un nuovo concetto del tempo, la terribile idea della storia, l’idea di una rivelazione che inesorabilmente si allontana, lasciando noi a vivere e morire senza scopo, in stato d’insensatezza”, il racconto è farraginoso come il viaggio nel deserto di Ellelloû e Sheba, con strati di lingue che si invadono, con “l’effetto di goffe maschere”, immaginifico e delirante, valga su tutte la scena nella base sovietica nel deserto con i vettori caricati di sacchi di sabbia solo per far spendere agli americani l’equivalente in un altro angolo sconosciuto di roccia e di vento. Il colpo di stato di Ellelloû innesca una reazione a catena, le congiure si susseguono senza soluzione di continuità, “il popolo guarda in alto, e deve vedere qualcosa”, solo che ritrova la testa del re che ha ripreso a farneticare. Avvolgente, paradossale, cosmopolita, a distanza di anni, Il colpo di stato è ancora un vivido affresco dell’Africa nel corso della cosiddetta guerra fredda, della mentalità coloniale di cui è stata succube prima, dopo e ancora oggi, e una parodia del potere assassino e suicida che si perpetua per partenogenesi, tanto “non c’è nulla da rivoluzionare”. Da leggere, rileggere e studiare.

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