martedì 7 maggio 2013

Kevin Powers

John Bartle e Daniel Murphy combattono in Iraq una guerra che ormai asseconda i cambi di stagione. Le operazioni militari hanno preso un ritmo annuale, neanche fossero delle sagre, e tutta la vita, quello che rimane della vita, si svolge secondo superstizioni, piccoli rituali, accorgimenti, regole e formalità che aiutano a credere che esiste ancora una possibilità di tornare a casa sani e salvi, più o meno interi. Una speranza remota, visto che tutti portano addosso una scheda che, nella più plastica evidenza della burocrazia bellica, elenca i possibili motivi della morte. Basta mettere una croce nel posto giusto: la scheda è già firmata e non a caso perché, come dice Kevin Powers con la voce di John Bartle, “non eravamo destinati a sopravvivere. In verità non eravamo destinati a niente. La guerra prendeva ciò che poteva. Era paziente. Non si curava degli obiettivi, dei confini, del fatto che ti volessero bene in tanti o nessuno”. Nell’assurdità di una guerra nata dalle menzogne e condotta senza un barlume d’idea, ormai né vinta né persa, anche la promessa fatta da John Bartle alla madre di Daniel Murphy al momento della partenza per l’Iraq assume l’indefinibile profilo di una bizzarria. Eppure era una richiesta elementare, naturale: riportalo a casa. Non hanno nemmeno vent’anni, gli insegnano a sparare e li spediscono ad Al Tafar, governatorato di Ninawa, dove il nemico usa persino i cadaveri per farne trappole esplosive. Come dice il sergente Sterling, bisogna restare psicopatici per sopravvivere, non bisogna nemmeno pensare che esista ancora un posto chiamato casa ed è la conclusione a cui arriva anche John Bartle: “Tutto, in quel momento, faceva pensare alla conclusione di un mal concepito esperimento sull’inevitabilità. Ogni cosa era al suo posto, in attesa di una pausa nel tempo, che l’origine di ogni impeto si placasse, e non rimanessero altro che detriti da catalogare. Il mondo, per quel che mi era dato da vedere, era sottile come carta”. Con Yellow Birds, Kevin Powers prova a dare uno spessore al vuoto e al buio che lascia la guerra e il suo tentativo si aggrappa a una scrittura “essenziale”, come ha scritto Dave Eggers, è vero, ma che spesso curva verso riflessioni e deviazioni filosofiche prolisse e non del tutto risolte. Se ne intuisce la necessità, senza dubbio, solo che la struttura di Yellow Birds, l’angoscia stessa che prova a comunicare dovrebbe tenere conto, come scriveva Karl Von Clausevitz, che “la guerra è un atto di violenza, e non si danno limiti alla manifestazione di tale violenza” e quindi ogni rappresentazione presuppone il confronto con quella dimensione, con quell’assurdità e con quella stupidità che qui ha solo la forma di una promessa. Non è facile raccontarlo e Yellow Birds, nonostante i premi e gli auguri di Tom Wolfe e Philipp Meyer, ci riesce solo in parte e a tratti. Kevin Powers è molto più chiaro ed esplicito (e personale) quando John Bartle dice: “Non ero un eroe, non ero un modello di niente, è già tanto che sia tornato a casa sulle mie gambe e respirando”. Non serviva molto altro.

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