sabato 30 giugno 2012

Thomas McGuane

Joe Starling, il protagonista di L’uomo che aveva perso il nome, da New York si trasferisce nel Montana dove “i suoi famigliari vissero per sempre, o comunque finché non morirono, se non più felici almeno più vicini ai loro sogni o meglio al loro modo di vedere le cose”. Il suo viaggio verso l’ovest, sulle orme del passato e in cerca delle proprie origini, è un percorso a ostacoli con una realtà poco propensa ad accogliere gli slanci ideali. La sconfitta dei padri è quella seguita allo sfaldamento dell’illusione della corsa dell’oro, dell’argento e di altri metalli preziosi che li ha costretti a ripiegare su forme di sostentamento più prosaiche, a partire dall’agricoltura e dall’allevamento. E’ la sfida a cui devono far fronte le generazzioni successive: sono gli anni delle reaganomics, che non risparmiano i nuclei delle radici americane, i ranch, le fattorie, i pascoli. Quello che Joe Starling trova in Montana è “pioggia sullo spaventapasseri, sangue nell’aratro” come cantava il John Mellencamp di Scarecrow, forse il più fedele testimone di quegli anni, e il tentativo che racconta L’uomo che aveva perso il nome è quel “guardare nel vuoto e scoprirci delle opportunità”. Ci si può adeguare, come fa Alvie, sua guida e sostegno, immedesimandosi nei romanzi di Zane Grey: “Io credo a tutto quello che c’è in quei libri. Quando quei cowboy sono nel deserto, io sento caldo. Quando vengono sorpresi dalla tempesta, mando la mia vecchia a prendere un’altra coperta Quando finiscono le provviste, mi precipito in cucina a farmi un panino col burro di arachidi”. Ci si può complicare la vita, cercando di trasformaele manovre di avvicinamento alle american girl in altrettanti elementi della frontiera. Joe Starling si rende conto “che non avrebbe retto un altro rapporto con qualcuno che mettesse troppa carne al fuoco. Qualunque fosse la cosa che lo aveva portato da un posto all’altro, ora non lo avrebbe più spinto oltre. Non riusciva a capire perché guardandosi dentro, come aveva fatto a lungo durante il suo apprendistato, non trovasse niente da utilizzare”. E’ una riflessione che avrebbe potuto fare Frank Copenhaver, il protagonista di Solo un cielo blu e, per estensione, Frank Bascombe il principale personaggio di Richard Ford da Sportswriter in poi: uomini sconfitti in cerca di “possibili percorsi paralleli, per dirla con Thomas McGuane, nella vita di provincia, che ha tutte le sue difficoltà, ma non nasconde nulla. Il paradosso è l’illusione di vivere nella concretezza della natura, per quanto resa artificiale dall’agricoltura, e di ritrovarsi in “una specie di sogno in cui i particolari della strada, i recenti ricordi e l’immaginazione di nuove, brillanti prospettive si dilatavano a dismisura provocando una sorta di narcosi” per poi arrendersi all’evidenza del fallimento con cui convivere in qualche modo, come ammette lo stesso Joe Starling: “Qui le cose non vanno tanto male. Conduco una vita sconcertante, ma ci sono portato”. Un romanzo intenso, e da non sottovalutare.

1 commento:

  1. Bellissimo ripescaggio. Leggere questi romanzi, anni fa, mi faceva sentire come Jeff Bridges in Texasville! Ah, già, Larry McMurtry... stesso distretto della mente.

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