domenica 24 giugno 2012

Robin D.G. Kelley

Raccontare la "storia di un genio americano" (definizione perfetta), la vita di un uomo dalla personalità cristallina e spigolosa, la forma dei paesaggi attorno a lui, a partire dalle propaggini verticali di New York, nonché (forse, e come sempre, la parte più complessa) la sua musica ha spinto Robin D.G. Kelley a scrivere qualcosa in più della biografia di uno straordinario jazzista, uno dei più grandi. Thelonious Monk è davvero una notevole storia americana che è scritta (e si legge) con la grazia di un romanzo ed è assidua nelle informazioni, nei dettagli, nelle sfumature come e quanto un saggio universitario. Alla prima battuta, Robin D.G. Kelley ha dovuto affrontare lo stesso dilemma che Paul Bacon enunciava così: “Mi si presenta una scelta: posso scrivere di Monk così come lui è, oppure scrivere di come appare e di come in genere si pensa che sia. Non è una scelta difficile, perché entrambe le possibilità offrono un terreno fertile; le due storie hanno solo gradi diversi di plausibilità”. Evitando complesse ricostruzioni nozionistiche (anche se qualche specifica sugli accordi e sulle note si è resa necessaria, oltre alla monumentale e appassionata ricerca dei dettagli) Robin D.G. Kelley ha saputo raccontare una vita attraverso la musica e dentro l’evolversi di una nazione perché come diceva Thelonious Monk: “Il jazz è l’America espressa in musica. Tutto è jazz, ovunque. Da ragazzo sentivo che bisognava fare qualcosa, con tutto quel jazz. Ed è quello che sto facendo da vent’anni. Forse ho messo il jazz su una via nuova. Forse ho una notevole influenza. Non so. Ad ogni modo, la mia musica è la mia musica, anche quando suono il piano. Ecco un criterio, se ne serve uno. Il jazz è la mia avventura. Cerco nuovi accordi, nuovi modi di sincopare, nuove figurazioni, nuove frasi. Modi diversi di usare le note. Tutto qui. Usare le note in modo diverso, non c’è altro”. Dall’underground della Bowery a essere riconosciuto uno dei più importanti compositori del ventesimo secolo, dalla dimensione collettiva dei conflitti razziali a quella personale dei disturbi mentali, da Charlie Parker a Miles Davis, Thelonious Monk si è sempre proiettato verso il futuro e l’ignoto, diventando un protagonista assoluto di anni pionieristici, tanto da mettere in guardia persino un’altra mente folle e geniale, quella di John Coltrane: “Devi stare sempre all’erta. Non sai mai che cosa può succedere. Ritmicamente, per esempio, Monk crea una tensione tale che i solisti, anziché ricadere nelle solite frasi fatte, sono costretti a pensare. Magari inizia una frase in un punto inaspettato, e tu devi essere pronto. Armonicamente, non segue la strada che avevi previsto. La cosa più importante che mi ha insegnato Monk è di non aver paura di provare nulla, se è quello che sento”. Ed è il senso ultimo di una biografia e insieme di una storia, quella che Thelonious Monk ha riassunto così, con una battuta rivolta a un giovane musicista: “Qui il blues non lo suoniamo così. Abbiamo cambiato tutto”. Fondamentale.

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