venerdì 30 luglio 2010

Kurt Vonnegut

Al primo impatto, e la prefazione di Mark Vonnegut non aiuta a fugare il dubbi, sembra il “solito” libro postumo, un lavoro di bricolage che mette insieme frammenti di discorsi, racconti, tagli, ritagli e frattaglie di varia provenienza per farne un ricordo più o meno solido. Ma Kurt Vonnegut non è stato uno scrittore di passaggio e oltre ad un congedo già memorabile di suo (“E grazie per l'attenzione. Io vado”) lascia trovare nel suo cassetto un pugno di racconti che ruotano attorno al bombardamento a tappeto di Dresda e alla sua prigionia: l'assemblaggio con altri scritti e parlati sembrerà posticcio, ma a tutti gli effetti produce un'efficace coda a Mattatoio n. 5, il suo capolavoro. L'intento non è dichiaratamente pacifista perché sono note le anarcoidi posizioni di Kurt Vonnegut e il suo lucido disincanto (“Come se ci fossimo presi a torte in faccia” ha detto del movimento di protesta contro la guerra del Vietnam) ma alcuni passaggi di questi inediti hanno una forza tale da alimentare un qualche focolaio di disgusto. Corsi e ricorsi storici sui modelli esportati dall'America sui propri aerei valgono fino ad un certo punto perché i collegamenti tra un secolo e l'altro non sempre funzionano con coerenza (o come dice Kurt Vonnegut: “Trovarsi nel raggio di quella macchina del tempo era un misto di queste tre cose: avere l'influenza, portare occhiali bifocali fatti per qualcun altro che non ci vedeva bene ed essere dentro una chitarra. Finché non la miglioreranno, non sarà mai né sicura né popolare”), anche se orrori e disastri si ripetono con una puntualità tanto idiota quanto malefica. La forza della testimonianza di Kurt Vonnegut va cercata altrove, però: nella sua attenzione maniacale nello schivare i luoghi comuni, le frasi fatte, le prese di posizione preconfezionate. Anche sull'essenza strategica e politica del bombardamento di Dresda (uno degli episodi più atroci della seconda guerra mondiale) il modello scelto da Kurt Vonnegut è quello di un taglio in profondità, molto acuto e denso. La scelta è chiarissima, la critica è esplicita, ma quello che fa testo, nel vero senso dell'espressione, è il meticoloso lavoro di Kurt Vonnegut nel raccontare la città incendiata, disintegrata e impolverita, come se stesse scavando con le sue mani tra le macerie e tra i corpi carbonizzati per trovare le parole adatte. Questo è il lavoro di un grande scrittore che, tra un addio e l'altro, non ha mai smesso di schivare la morte e la vita con quell'ironia brulicante d'intelligenza che l'ha sempre distinto. Permettendosi anche di violentare la banalità del suggerimento ai neofiti, così fosse soltanto per puro divertimento: “Il mio consiglio agli scrittori esordienti? Non usate il punto e virgola! E' un ermafrodita e non rappresenta un bel nulla. L'unica cosa che suggerisce è che forse hai fatto l'università”. Sistematelo accanto a Mattatoio n. 5, rileggetelo spesso. 

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