martedì 29 giugno 2010

Philip Roth

I motivi per cui Pastorale americana merita di essere ricordato come uno dei (pochi) romanzi fondamentali degli ultimi anni sono infiniti ed esulano dalle sue oltre quattrocento pagine perché questo è un libro che ha bisogno di un lettore per esistere. E' una storia che deve essere condivisa, una storia che ognuno di noi ha già dentro perché "non dimentichiamo le cose solo perché non contano, ma le dimentichiamo anche perché contano troppo (perché ciascuno di noi ricorda e dimentica secondo uno schema labirintico che rappresenta un segno di riconoscimento non meno caratteristico di un'impronta digitale)". Dall'alto della sua straordinaria natura Pastorale americana è un clamoroso, possente uppercut a tutta l'involutissima similletteratura che sproloquia di linguaggio, esperimenti, trasgressione ed altre amenità ma che in realtà tergiversa all'infinito per nascondere una realtà di fatto: che non ha niente da raccontare. Philip Roth taglia corto anche sulla magia della scrittura con quattro righe che andrebbero incise sui muri delle scuole e (soprattutto) delle università: “Scrivere di trasforma in una persona che sbaglia sempre. La perversione che ti spinge a continuare è l’illusione che un giorno, forse, l’imbroccherai. Che cos’altro potrebbe farlo? Come per tutti i fenomeni patologici, non ti rovina completamente la vita”. E’ con questa premessa che Pastorale americana racconta la saga delle quattro generazioni dei Levov, famiglia di immigrati che con il sangue, il sudore e le lacrime si è costruita una propria America. Nel raccontare quasi un secolo di vicende famigliari Philip Roth non lascia nulla al caso e sviscera con identica, chirurgica precisione tanto la manifattura dei guanti (l’attività di famiglia) quanto la spaccatura verticale che, ai tempi della guerra del Vietnam, divide i Levov come tutta l’America. Il passo è sicuro, spedito, senza esitazioni e nello stesso tempo armonico e fluente. Philip Roth tiene il lettore sulla corda, lo lascia divertire con le sue divagazioni o con le storie dei singoli personaggi, come se fosse un abile giocoliere delle parole e della scrittura ma alla fine gli sbatte la realtà in faccia o in posti meno nobili. Con un finale urticante e sarcastico che è esattamente agli antipodi dal punto di partenza. Tutto è classico, perfetto, anche standard, se si vuole, ma meravigliosamente nudo e crudo, tanto che l’affresco dell'America, questo fantasma ideale che aleggia su tutto il romanzo finisce sullo sfondo. Il lettore, alla fine, come del resto tutti i protagonisti di Pastorale americana, impara "la lezione peggiore che la vita possa insegnare: che non c'è un senso. E quando capita una cosa simile, la felicità non è più spontanea. E' artificiale e, anche allora, comprata al prezzo di un ostinato estraniamento da se stessi e dalla propria storia". Più che un capolavoro, un caposaldo della letteratura (americana e non).

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