In uno degli stralci più coloriti che vengono riproposti in La baby aerodinamica kolor karamella, Tom Wolfe racconta con disinvoltura la storia di un’opera di Walter de Maria, chiamata Il ritratto di Dorian Gray. Con tutto il rispetto per Oscar Wilde, il furto del titolo ha un senso perché si tratta solo di una lastra d’argento che si ossida e quindi muta nel corso del tempo. La sua storia è al centro del demi monde di New York, con mostre, vernissage, inaugurazioni, cocktail party e il sabato sera tra Jasper Johns o Mark Rothko, ma Tom Wolfe ci arriva alla fine, partendo dalle coste californiane dove imperversano surf, hot-rod e rock’n’roll. La “segregazione generazionale” cominciata con l’invenzione della gioventù nel dopoguerra si impone con la customizzazione delle carrozzerie perché “tra i giovani l’automobile è diventata un simbolo, e in parte il mezzo fisico, del trionfo sulle restrizioni imposte dalla famiglia e dalla comunità”. Tom Wolfe indaga le innovazioni meccaniche come le follie dei demolition derby e soprattutto la deviazione delle forme, dei colori e dei design che ha urtato l’egemonia dei profili dell’industria di Detroit. Sull’onda delle creazioni giovanili, Tom Wolfe affronta anche Murray the K e il suo legame con i Beatles, “il più grosso fenomeno di musica popolare mai esistito”, l’importanza delle radio nella diffusione e nella percezione della cultura, la figura di Phil Spector e le sue produzioni fino ai tumulti di Watts. È tutta un’altra era vista su più dimensioni: le considerazioni di Tom Wolfe sono sempre belle appuntite, lo stile è tranchant e coinvolgente, l’attenzione per i dettagli e i costumi ha una teatralità effervescente, ma a una lettura più attenta, è soltanto un diversivo per mascherare uno sguardo molto più profondo. Ben presto la vena caustica di Tom Wolfe rivolge le sue attenzioni a New York e secondo il suo punto di vista, la città “non fa che tenersi aggrappata a questa vecchia, feudale e patrimoniale idea delle gerarchie sociali, del farsi vedere, dell’incontrare la gente giusta e via dicendo”. Mecenati e artisti, commensali e faccendieri, portieri e altre apparizioni fugaci sono all’ordine del giorno e della notte: New York è fatta di ombre e “qualche passo falso, qualche delusione, qualche risatina alle spalle, e vuoi tagliarti la gola per questo?”. Tom Wolfe è una guida imprevedibile, capace di tenere banco senza sosta, lasciandosi trasportare persino da una brillante leggerezza quando dice: “Guardatevi intorno, tanto per cominciare questa città è un manicomio, sbaglio? Perciò, non lasciatevi prendere dalla frenesia. Rilassatevi. Godetevela”. Certo, intanto Il ritratto di Dorian Gray ormai annerito e graffiato dagli anni oggi vale più di mezzo milione di dollari. Testimone oculare di tanti eccessi e divagazioni, Tom Wolfe a New York si concede un’avventura con gli automatismi all’Hilton, frutto di una digressione letteraria che pare infinita, e poi, nell’alternarsi tra la costa occidentale e orientale, ecco il gran finale con il ritorno in California con l’analisi ravvicinata delle protesi di silicone, acuta ed esilarante. Nel frattempo ci sono ampie parentesi dedicate a Marshall McLuhan (e a Freud) e a Hugh Hefner e al suo impero di apparenze, così, senza alcuna soluzione di continuità. Se a prima vista La baby aerodinamica kolor karamella è un insieme difficile da decifrare, il collage che va formandosi sottolinea, nel caso ce ne fosse bisogno, che “la vita americana si va omogeneizzando sempre più al suo centro di potere”. Ancora validissimo.
lunedì 27 ottobre 2025
martedì 21 ottobre 2025
T. C. Boyle
Fermata per una piccola infrazione stradale in un’area suburbana della California, Alex Halter viene arrestata perché a suo carico figurano una sfilza di reati commessi in più stati americani. Lei, un’innocente insegnante, comprende fin da subito che deve aver subito il furto delle generalità, ma viene considerata fuorilegge a sua volta perché il suo doppelgänger ha una serie di precedenti sterminata e quindi le tocca tutto l’iter giudiziario, burocratico e penale (passaggio in carcere compreso). È un incubo, aggravato dal fatto che Alex Halter è sorda, un handicap che T. C. Boyle rende inquietante così come è meticoloso fino all’ossessione nel descrivere lo scorrere del tempo dentro i contorni di una situazione impossibile da decifrare. Quando Alex viene riconosciuta vittima del raggiro, non ha più fiducia nelle istituzioni, e con il fidanzato, Bridger, si mette alla caccia del nemico, che si rivelerà essere William Peck Wilson alias Frank Calabrese. Peck è furbo, infido, cinico e irritante, ma ha qualcosa che ce lo rende simpatico: i gusti da gourmet, le difficoltà nelle relazioni, l’impazienza. È un personaggio che vive costantemente “in bilico su una capocchia di spillo” e quando trova uno sprazzo di serenità riesce ancora a distinguere “uno di quei momenti in cui il mondo ti si spalanca davanti, in cui ogni piccola scocciatura quotidiana sembra scomparire e il pianeta si dispone sul proprio asse, perfettamente in equilibrio, precisamente ora, davanti a te”. Non può durare e in qualche modo lo percepisce anche lui: l’identità è una partita complessa, il furto ancora di più perché mentire richiede controllo assoluto dato che “tutto quanto era solo una grande esibizione” ed è indispensabile non incappare in equivoci per permettere agli alias di prelevare, spendere, acquistare in continuazione. Quando le Identità rubate gli si ritorcono contro e mettono a rischio il ménage sopra le righe con Natalia e la figlia Madison, non resta che la fuga e dalla metà in poi il romanzo diventa un inseguimento attraverso l’America e si converte in un road movie. Il furto dell’identità si trasforma nell’intersezione delle vite, di tutte le vite, quelle vere e quelle false, quelle limitate di Alex Halter e Bridger Martin (alla fine ruba le identità di entrambi) e quelle senza limiti apparenti di Peck e Natalia che si scontrano e infine si sovrappongono. La trama si avvolge su se stessa e si complica da sola perché T. C. Boyle affida tutti i movimenti e ogni sequenza alle scelte dei personaggi, senza risparmiargli nulla, mettendoli sulla strada, e descrivendo dall’alto, e in prospettiva, quello che gli succede. Identità rubate è un trompe-l’œil che ha il ritmo feroce di un rocambolesco thriller, ma tocca un nervo scoperto e nelle pieghe della storia, con piccolo artificio letterario, infila anche la gestazione di un altro romanzo di T. C. Boyle, Il ragazzo selvaggio, ancora più concentrato sui temi dell’identità e della diversità, affidandolo alle cure di Alex Halter, quella vera. Notevole.
lunedì 13 ottobre 2025
Sarah Seltzer
Nell’effervescenza del Village, siamo nell’anno di Like A Rolling Stone, il fatidico 1965, approda una giovane donna, Judie, attratta dalle melodie e dalle figure di Judy Collins e Pete Seeger, e non solo. Sono tempi in cui il potere nascosto nelle canzoni emerge come la colonna sonora di un momento irripetibile e Judie ha un’avventura fugace proprio con un songwriter, Eamon Foley, da cui nasce una figlia, Rose, che viene data in adozione. Non una novità: all’epoca è capitato davvero a Joni Mitchell e in seguito a Patti Smith, richiamata più avanti, quando la musica è già cambiata. Insieme alla sorella Sylvia, Judie è un po’ il cardine delle Singer Sisters, ma tra le due anche la più fragile. Le carriere si alternano in cerca di una definizione perché “le canzoni potevano essere rese sofisticate. La cosa da fare era aggiungere bridge, ritornelli, strofe”. Il confronto è continuo, le Singer Sisters si avviano a diventare eroine di un’epoca, poi Judie poi sposa un altro musicista, Dave Cantor o Dave Canticle per il resto del mondo, da cui ha Leon ed Emma. Le gravidanze e la maternità, che non si addicono a una rock’n’roll star, la tengono lontana dal songwriting e dalla musica, mentre il marito è in tour e i figli crescono e diventano a loro volta musicisti. Resta il segreto di Rose che irrompe nella vita di Emma: lampi del passato s’intersecano con il presente e il futuro e gli anni fuggono. Il massacro alla Kent State University, il Watergate, la guerra del Vietnam sono ombre cupe sullo sfondo, la musica folk resta ancorata alla sua natura mentre l’evoluzione musicale si fa via via più rapida. I cliché si susseguono senza sosta: in cerca di un singolo di successo, in partenza per il tour, ma ancora di più all’inseguimento di “una canzone folk, di quelle che la gente canta sotto il portico nelle notti d’estate”, le Singer Sisters, Dave Canticle, e poi Emma e Leon attraversano i rapporti famigliari in una saga tutta femminile di madri, mogli, figlie e sorelle, valida per tutto l’ultimo quarto del ventesimo secolo fino al 2003. Tra gli studi di registrazione e le distorsioni dell’industria dello spettacolo (incluso un falso flirt di Emma), le case riempite e svuotate e i viaggi in Europa i rapporti si dipanano lungo un intero albero genealogico e le vicissitudini personali (incontri, separazioni, matrimoni, rivelazioni, fallimenti, successi) si sovrappongono e confondono con la nascita di strofe e ritornelli e bridge, con “i suoni dei loro desideri trasformati in poesia e canzone” e con la loro percezione divisa tra genesi privata ed esposizione pubblica. Come dice Judie sarà anche “pura speculazione, certo. Ma riempiva il buco della serratura del suo cuore”. È vero: le canzoni sono messaggi che, da una persona all’altra, superano le barriere emotive e in qualche modo “ti raggiungevano nella tasca posteriore al di là del tuo io pensante, il luogo in cui i colori e i sentimenti e i vettori di luce saltavano intorno a te, entravano e uscivano da te, ti cambiavano dalla persona che eri il giorno prima e almeno temporaneamente fermavano le domande che ti tormentavano la notte”. È così che scorre l’intesa storia delle Singer Sisters, nonostante i sommovimenti dei personaggi che, a più riprese, ricordano molti volti noti nella realtà. A un primo approccio si possono intravedere Joan Baez, Mimi e Richard Fariña, poi, con lo sviluppo dei legami a un livello superiore, è forte il richiamo alla famiglia allargata McGarrigle-Wainwright, (compreso Leon, che somiglia molto a Rufus Wainwright), forse un po’ anche le Roches. Sì, Bob Dylan è inevitabile e onnipresente, ma in incognito, con titoli e versi delle canzoni che viaggiano nell’atmosfera e si infilano nelle pieghe delle vite, come nessun altro è riuscito fare.
lunedì 6 ottobre 2025
Kim Wozencraft
Il doppio gioco è un’arma complicata e pericolosa, anche quando è condotto in nome e per conto della legge e della giustizia. Rush racconta, con una forma immediata, mai edulcorata, semplice, dura e diretta, la missione di due agenti della narcotici che vengono infiltrati nel milieu di spacciatori, tossicodipendenti e outsider assortiti nella cittadina di Beaumont, Texas. Kristen Cates è una giovane allieva di polizia, mentre il suo mentore e compagno, Jim Raynor, è già un veterano: insieme devono annullare le proprie identità, fingere giorno e notte, provare gli stupefacenti in quantità, per non smentirsi, e finiscono per ritrovarsi invischiati senza quasi accorgersene: “Avviene per gradi, così piano che non te ne accorgi. Le offese, le morti, le menzogne ti martellano e, alla fine, ti guardi dentro e trovi il nulla. Il vuoto. Ed è maledettamente bello non sentire male”. Oltre che il corpo di reato, la droga diventa lo strumento ideale per condire l’ambiguità dove il dovere e il diritto vengono confinati in un angolo e, alla fine, “le cose succedono. E tu ti chiedi se tradire o diventare cieco”. Il capo della polizia, Donald J. Nettle, pretende risultati perché vuole essere confermato nella sua posizione e l’inganno è velenoso e contagioso, ma anche nelle nebbie che avvolgono Rush, Kristen riesce ad accorgersi delle distorsioni: “Avrei dovuto ascoltare. Avrei dovuto dar retta a quella parte di me che da qualche punto del mio cranio mi bisbigliava sta’ attenta. Io zittivo la voce, le dicevo di tacere, di andare via, di lasciarmi stare. Avevo deciso che sapevo quello che facevo”. Troppo tardi: anche il dialogo interiore, che è una costante in Rush, è diventato ingannevole: “Compravamo molta roba, proprio tanta, ma continuavo a dirmi che era tutto sotto controllo. Venirne fuori non sarebbe stato un problema. Ero forte abbastanza. Ce l’avrei fatta”. Ore, giorni, settimane, mesi, la stessa storia. Mentre il tempo si dilata e diventa una variabile confusa, il perimetro si restringe. Kristen si ritrova in “un puntino bianco, minuscolo, piccolissimo. Uno spazio così esiguo tra l’infelicità e la gioia”. Sperimentano tutto, compresa un’overdose (per Jim), e la teoria di “combattere il crimine con il crimine”, inclusa la creazione di prove false, diventa solo l’ennesimo lavoro sporco: la sopravvivenza è l’unico obiettivo. Kristen è lapidaria: “Siamo tutti insieme. Un giorno, in una mattina di sole, vi tradirò in nome della legge. Ma per il momento, andiamo tutti in trip e ascoltiamo la musica”. Nell’aria scorrono a ripetizione AC/DC, J. J. Cale, Supertramp, Rod Stewart, Marvin Gaye, Lou Reed, Patsy Cline, Ray Charles, Willie Nelson, Johnny Paycheck, Merle Haggard, Sammy Hagar, Rita Coolidge, Neil Young e soprattutto gli Steely Dan. La colonna sonora sfuma, l’indagine giunge alla conclusione, gli arresti vengono effettuati, ma è soltanto l’inizio e Kristen Cates, una volta ripreso il suo nome, riassume così tutto il processo: “Cambia identità, buttati nella melma e gioca a ripulire le strade, poi saltane fuori e ricomincia esattamente dove hai smesso, presumibilmente come un essere umano rispettabile”. Kristen e Jim si ritrovano incastrati più volte, anche perché “gli sbirri non hanno tempo di fare domande, sono troppo occupati a restare vivi”. Vengono aggrediti a colpi di fucile, non hanno un posto dove nascondersi o dove fuggire, l’FBI li costringe a confessare gli abusi e le irregolarità e li trascina in tribunale, dove sono condannati. Il capo della polizia è già altrove, immerso nella politica, e ormai sono abbandonati al loro destino. Seguendo da vicino la liaison tra Kristen e Jim, Kim Wozencraft, ci offre uno sguardo crudo, livido e spietato dentro un mondo di ombre, difficile da cogliere, se non lasciandosi trasportare e sporcandosi le mani, proprio come succede in Rush.
mercoledì 1 ottobre 2025
Oakley Hall
Quella delle Bad Lands è un’enclave americana limitata, nello spazio e nel tempo, che vive ancora nella condizione selvaggia della frontiera. All’alba del 1883, trascorsi quasi vent’anni dalla fine della guerra di secessione, l’irruzione della ferrovia e del filo spinato stanno riducendo le distanze e delimitando nuovi confini. Jonathan Raban in Bad Land (nessuna parentela, molte coincidenze) precisa che “i recinti, oltre che utili, erano anche un’affermazione concreta dell’idea che quella terra selvaggia poteva essere domata”. Le Bad Lands sono destinate a essere assoggettate: i bisonti non ci sono più, gli indiani sono stati decimati e spinti nelle riserve e nei territori, insieme ai treni, stanno per arrivare le leggi federali, come negli altri stati formalmente compiuti. La conquista del West, venduto come una terra promessa, è una vittoria coloniale e una tragedia umana. Le Bad Lands non concedono nulla: sono un’area affascinante, ma anche ostica per via del clima, delle condizioni del terreno e di minacce e imprevisti assortiti. Anche allevare il bestiame, che dovrebbe essere l’attività più pacifica del mondo, si rivela un lavoro molto pericoloso. È in questo scenario che incontriamo Andrew Livingstone, in arrivo dalla costa orientale, Lord Machray, un eccentrico e intraprendente scozzese, la famiglia Hardy, che da tempo si è stabilita nelle Bad Lands, insieme a una fiera maîtresse, Cora Benbow, e a uno scaltro cacciatore, Bill Driggs. Sono i principali protagonisti degli scontri per il controllo dei pascoli e del bestiame che ben presto, tra tradimenti e capovolgimenti di fronte, razzie e scorribande, mercenari e pistoleri, incluso Jack Boutelle, particolarmente infido e odioso, si trasformano in una vera e propria guerriglia attorno ai ranch per il dominio delle Bad Lands. La violenza e le armi, una diffusione endemica e letale, sono l’unica forma di giustizia che poi si traduce in vendetta. Lo sceriffo è troppo lontano per intervenire e non ha né la forza né la volontà per controllare le posse e le bande che scorrazzano sui crinali delle Bad Lands. Occorre difendersi (e attaccare) da soli: il legame tra Livingstone e Machray, nato da una sfida di pugilato improvvisata in mezzo alla prateria, è altalenante, ma alla fine si rivela il sodalizio più efficace. Tra le tante bizzarrie, Lord Machray oltre a un’energia esagerata, ha una solida esperienza militare. Livingstone coltiva una comprensione politica delle trattative e delle strategie e insieme riescono a tenere testa alle turbolenze che agitano le Bad Lands, ma non a quello che sta succedendo che “è un processo implacabile, a quanto pare: col tempo, il bene presente nelle cose finirà per essere corrotto, degradato al minimo comune denominatore della malvagità umana”. Una storia americana che non lascia scampo: l’epilogo, nel 1885 e con una coda all’inizio del ventesimo secolo, è amaro, senza vincitori o vinti, solo sconfitti perché “il tempo aveva stravolto tutto, ciò che prima era sbagliato ora appariva giusto e il giusto era diventato sbagliato”. Senza le vette liriche di Cormac McCarthy o la capacità immaginifica di Larry McMurtry, Oakley Hall si affida piuttosto a uno stile immediato, diretto, comunque in grado di sottolineare momenti drammatici e tesissimi così come i non pochi episodi più coloriti. La scrittura persegue in modo arguto e scorrevole (compreso l’epistolario parallelo di Livingstone) un’immagine realistica del West e Bad Lands, pur con tutti i suoi limiti, è una rappresentazione concreta della formazione degli Stati (poco) Uniti e di quello che sono diventati e del resto, se lo snodo di tutta la storia è un bordello, un motivo ci sarà.
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