Nel cercare di definire una cultura utopica, ma quanto mai necessaria, Henry Miller diceva che “la nostra meta non è mai stata un luogo, piuttosto un nuovo modo di vedere le cose”. È stato un viaggio coraggioso, imprevedibile e per molti versi bizzarro, ma Le voci degli hippies, nella sequenza di articoli tratta dalla stampa underground offrono un interessante spaccato del periodo storico, con una serie di reportage e di testimonianze di prima mano, non filtrate, immediate. Le preoccupanti attività dei pericolosi ribelli che si inalberano per “strani discorsi sulla letteratura” e l’ineluttabile presenza di strutture sempre più oppressive tra “l’espandersi di una burocrazia sempre più incombente e di un tipo di amministrazione sempre più impersonale” sono le due masse critiche che si sono scontrate, dalla fine della seconda guerra mondiale fino all’avvento di Reagan. Da una parte happening, raduni, manifestazioni ed espressioni colorite e fantasiose; dall’altra complotti più o meno oscuri che prevedevano persino campi di concentramento americani per i giovani facinorosi, anno di grazia 1950. È un dato storico e i risvolti giuridici e istituzionali legati a quelle installazioni mettono in evidenza gli abusi di potere in nome dell’ordine costituito, insieme alle perquisizioni delle comuni e alla negazione delle diversità. Il motivo del contendere è la guerra del Vietnam, che è sempre in primo piano, e “milioni di individui che dovrebbero essere liberi sono esposti all’insidia della tirannia da parte di uomini senza onore che si servono dell’apparato più criticabile che si possa immaginare, che comprende il lavoro di corridoio, l’isterismo giornalistico e l’interesse della burocrazia ad autoconservarsi al di là delle funzioni”. È la negazione del futuro che l’apparato politico, poliziesco e militaresco ha perseguito e “ha soltanto prodotto questo presente”, fatto di violenza e di prevaricazione. David Crosby, forse il più affascinante anfitrione dell’epoca, scriveva: “Vedo il presidente Johnson e quegli altri energumeni con i loro mostruosi ego girare in tondo con sordi brontolii minacciosi, come gladiatori in un’arena, gente! Non si rendono conto che il mondo ha la grandezza di una pallina da golf; che non c’è più posto per i loro giochi. Sono come sei persone in uno sgabuzzino. Ognuno ha in mano una bomba e tutti si odiano; poi uno sfila la sicura e tutti saltano in aria. Non è la guerra, è solo una scena disgustosa”. L’immagine rende l’idea e Le voci degli hippies nella forma irrisolta di quella “anarcodemocrazia” in cui si riconoscono cercano invece forme di pensiero che riflettono sulle funzioni della scuola, sui diritti delle minoranze, sul ruolo della musica, dai Beatles al festival di Monterey, e dell’arte in generale. Il dettato è quello sintetizzato da Richard Pine: “Crediamo nell’amore, nella tolleranza, nella comprensione dei giovani, dei vecchi e degli indifesi e di coloro che hanno opinioni diverse”, e questo vale per il sesso e per l’amore, così come per le sostanze stupefacenti: le considerazioni sono lungimiranti e validissime, purtroppo rimaste inascoltate. Le voci degli hippies sono molte e diverse: l’articolo di Alan Katzmann sui Kennedy (Almanacco del povero paranoide) sembra un estratto di American Tabloid, l’apologia di Phil Spector per Lenny Bruce è da incorniciare, l’analisi di Tuli Kupferberg (l’altra metà dei Fugs) è lucidissima quando dice: “Il paese è spaccato in due”, tra un’idea di America e cosa è diventata. Per John Hopkins, “la parola è una capsula vuota in attesa di essere riempita” e allora rileggendole a distanza nel tempo, Le voci degli hippies non appaiono poi così fuori luogo, e andrebbero rilette e ascoltate in un mondo e in un tempo costretti dalla miseria e dalla paura. È ancora David Crosby a cogliere lo spirito che riunisce, grazie a John Hopkins, tutte Le voci degli hippies: “Ogni etichetta ti impiccolisce, ti chiude in un recinto. L’intero universo è la tua casa se tu riesci a crescere abbastanza per viverci”. La destinazione è ancora là, che ci aspetta.
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