domenica 9 agosto 2015

Frank Conroy

La velocità, prima di tutto. Soprattutto, “qualsiasi cosa pur di mantenere la velocità, mantenere la velocità e saettare attraverso quel mondo oscuro”. Il paradosso di Stop-Time, come già rivela il titolo, è il tentativo di preservare una magia destinata a dissolversi raccontandola attraverso il diario di una fuga continua, che nasconde la resistenza all'inesorabile minaccia dell'età adulta, che incombe ogni giorno di più. Il sapore di piccole e grandi scoperte, della sorpresa dovuta alla coabitazione con il proprio corpo in rapida evoluzione, si scontra con la sensazione di dover sperimentare presto una prima fine perché, dice Frank Conroy in veste di portavoce di sé e dei suoi amici di scorribande, “inconsciamente sapevamo che non avremmo mai avuto un'altra chance. Quella sfrenata libertà sarebbe stata nostra una volta sola”. Frank Conroy compila Stop-Time con assiduità e partecipazione, si trasfigura nel bambino che è stato e lo “vede con la chiarezza di un mistico”: l'innocenza svanita nel ricordo di una giornata alla fiera della contea, tra pochi centesimi da spendere e un sacco di fantasie da consumare o in una lunga frequentazione con lo yo-yo (niente di più importante da fare) diventano i tasselli essenziali della sua ricostruzione. Lo stile in sé non è niente di sorprendente: per quanto florido e ispirato, segue la visione soggettiva di tutti gli americani che viaggiano per una vita, senza giungere mai davvero da qualche parte. Più determinante la domanda al centro di Stop-Time, ovvero “è la spensieratezza dell'infanzia a dischiudere il mondo?” O più mondi? La forma mutevole di quella sfuggente twilight zone diventa una ricerca dell'atmosfera, del clima, delle emozioni, e di quel particolare fenomeno per cui “forse i bambini ricordano solo l'attesa delle cose. Nell'istante in cui gli eventi cominciano ad accadere, loro si perdono nel movimento, come danzatori ipnotizzati”. L'infanzia si trasforma attraverso lenti ma imprevedibili processi chimici, gli istinti suicidi e la scoperta del sesso, l'arrivo del jazz e del cinema e Frank Conroy sa descriverli con grande accortezza, a cui non è estraneo un certo “candore” come lo definisce Norman Mailer e anche una sua “freschezza” come diceva William Styron. Se prima, “avevamo depositi segreti di cibo e fumetti disseminati in vari punti del bosco. Ce ne servivamo di rado. A piacerci era l'idea”, con il passare del tempo cresce l'incertenza perché “sapevamo cosa stavamo guardando, ma era come se non riuscissimo a crederci fino in fondo”. E' così che Stop-Time rimane indeterminato anche se in qualche modo il viaggio deve pur finire. E' fatta così la vita ed è fatta così la realtà, anche se Frank Conroy sperimenta tutti i modi possibili per evitarla, per trasfigurarla, per esorcizzarla essendosi accorto che “la mia fede nell'uniformità del tempo scivola via a poco a poco. Comincio a credere che il tempo cronologico sia un'illusione, e che a organizzare l'esistenza sia un qualche altro principio”. La salvezza sta nell'idea di diventare scrittore, in un racconto che fatica a prendere forma, in ottocento tascabili sullo scaffale, in una lunga lista di narratori e poeti che riempiono Stop-Time visto che “a risultarmi irresistibile, nei libri, era la chiarezza del mondo, il modo incredibilmente appagante in cui la vita acquisiva peso e diventava accessibile. La realtà erano i libri”. Quello è solo il primo passo, poi “la realtà si dissolveva, ed ero libero di abbandonarmi alla fantasia, vivere migliaia di vite, tutte più potenti, più accessibili e più reali della mia”. Ci sono misteri che sfumano nel ricordo, altri rimangono per sempre.

Nessun commento:

Posta un commento