domenica 23 agosto 2015

John Steinbeck

L'insonnia genera mostri. Un quadro va in frantumi e un altro non si compone: “vivere vuol dire portare una cicatrice” ed Ethan Allen Hawley convive con il fantasma del fallimento dei suoi avi. Una baleniera bruciata nel porto della città proprio mentre il petrolio andava soppiantando, come combustibile, l'olio animale. Era un secolo prima, all'alba del 1960 l'idea di “progresso” passa per le infrastrutture (nel caso specifico, un aeroporto) e per la pubblicità (compresa la televisione). “Possiamo sparare razzi nello spazio, ma non possiamo guarire l'ira e lo scontento”, ma d'altra parte restare fermi o invisibili significa naufragare ancora una volta ed Ethan Allen Hawley soffre la sua condizione di nobile decaduto (non c'è nobiltà, senza soldi) lavorando nel drugstore di Alfio Marullo, immigrato, arricchito, più sopportato che gradito. I collegamenti di un'intera cittadina, New Baytown, passano da lì e attraverso quelle connessioni filtrano sotterfugi, ricatti, omissioni che seguono l'obliquità di un piano inclinato, pesando di volta in volta su un piatto o sull'altro di una sghemba bilancia. Se “la legge della foresta è sempre in vigore”, non di meno Ethan Allen Hawley si convince che “quelli che più hanno paura dei propri sogni si convincono di non sognare affatto. A me è abbastanza facile spiegare il mio sogno, ma non per questo è meno spaventoso”, e la sua è già una confessione eclatante. John Steinbeck incastona i personaggi, ogni singola odissea personale, in un mosaico raffinatissimo e perverso e, uno dopo l'altro, ribalta le connotazioni, le possibili valutazioni etiche, sue e del lettore, lasciando aperto il sipario su un dramma infinito. L'inverno del nostro scontento resta spiazzante anche a distanza di mezzo secolo perché svelando per gradi, un pezzo dopo l'altro, i piani di Ethan Allen Hawley svela un oceano increspato dalle tempeste, dalla natura fallace del trionfo, dall'ineluttabilità del fallimento perché “negli affari e nella politica, un uomo deve aprirsi, scavarsi la strada attraverso gli uomini, per arrivare a essere re della montagna. Una volta là, può essere grande e buono, ma prima ci deve arrivare”. Chiarissimo. Diventa invece impossibile distinguere tra giusto e sbagliato, che rimangono separati da una linea molto sottile e impercettibile, così come è difficile separare le cause dell'ambizione dai suoi effetti: “Forza e successo stanno sempre al disopra della moralità, al disopra della critica. Par dunque che non conti csa fai, ma come lo fai e come lo chiami. C'è un controllo negli uomini, nel fondo, una cosa che li fermi o li castighi? Pare che non ci sia. L'unico castigo è per chi fallisce. In effetti nessun delitto è davvero commesso finché non si prende il delinquente”. L'inverno del nostro scontento svela così la sua dimensione shakespeariana, che diventa palpabile nelle battute finali dove John Steinbeck chiarisce che “non è vero che esista una comunità di luci, un falò del mondo. Ognuno porta la sua, la sua luce solitaria”. Rimane una significativa riflessione sulla pubblicità che apre e conclude, tra le righe, L'inverno del nostro scontento: tra le numerose diatribe famigliari dell'ultima generazione degli Hawley c'è una discussione intorno alla necessità di comprare certi fiocchi d'aveva per il gadget allegato e un commento del protagonista rimane impresso a caldo: “Io volevo solo distinguere i fiocchi d'aveva dalla maschera di Topolino. Confondono tutto”. L'anno dopo sarebbe arrivato il premio Nobel, quanto mai appropriato.

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