martedì 28 maggio 2013

David Remnick

La costruzione di una rock’n’roll star è un lavoro imponente, affascinante e soprattutto infinito. E’ una continua metamorfosi in cui il personaggio e l’essere umano giocano una delicata partita psicologica complicata da una serie sterminata di variabili e incognite che vanno dall’accordatura della chitarra alla qualità della stampa dei dischi, dal costo dei biglietti dei concerti alle posizioni raggiunte nelle classifiche. Non c’è niente di umano ed è ammirevole la dedizione con cui Bruce Springsteen si è prestato a definire la sua idea di rock’n’roll star, dedicandogli tutta la vita, professionale e non. E’ la “totale applicazione” che racconta David Remnick nel suo Ritratto di Bruce Springsteen e che ripercorre l’essenza della sua biografia (niente di nuovo all’orizzonte) aggiornandola agli eventi più recenti e alternandola alla cronaca delle fasi iniziali del tour di Wrecking Ball. David Remnick ha un pass privilegiato perché accede a luoghi privati, così come a dettagli dolorosi e scomodi e la sua versione del real world di Bruce Springsteen è essenziale, precisa, coerente. L’approccio è po’ troppo politically correct per essere convincente e in questo We Are Alive non si discosta molto dalle altre biografie springsteeniane. Una riflessione interessante può partire dalla critica di Leon Wieseltier, peraltro abbastanza sgangherata, quando cercando di demolire Springsteen attraverso David Remnick scrive che “il rock’n’roll dimostra che Herbert Marcuse aveva ragione. Non ci sarà alcuna rivoluzione in America. Questa società continuerà a contenere le sue contraddizioni senza risolverle, assorbirà l’opposizione e la ricompenserà, trasformerà il dissenso in cultura e commercio. L’errore di Marcuse era credere che fosse una cosa brutta. E’ una cosa bella, invece, perché ci risparmiamo gli strazi delle purificazioni politiche”. L’asserzione, nell’essenza conservatrice che esprime (nel senso più ampio del termine), ha una sua lucidità perché dimostra di (non) aver capito le potenzialità del rock’n’roll, che sono rivoluzionarie a livelli che il potere costituito non è mai riuscito a comprendere. Su questo Bruce Springsteen alza una bandiera per niente arrendevole, facendosi carico anche delle inevitabili ironie legate all’età con cui ancora calca i palchi per ore e ore: “Tutto deve essere routine, responsabilità, decoro. Un mondo chiuso. Ma la musica, quando è davvero buona, spalanca di nuovo la porta e ci fa entrare la gente, la luce, l’aria, l’energia”. Allora, quel We Are Alive stampato in copertina comincia ad avere un senso diverso: anche se Clarence (Clemons) e Danny (Federici), e li chiamiamo per nome perché siamo parte in causa, non ci sono più, anche se lo show con la E Street Band è diventato un party sui generis, un po’ bring the family, un po’ festa di fine stagione, suona comunque felice e liberatorio, come nient’altro. E alla fine il più sincero è ancora lui, Bruce Springsteen, quando dice che “è tutto teatro”, ed è meglio così perché della realtà ne abbiamo abbastanza.

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