lunedì 10 gennaio 2011

Samuel Fuller

Come Richard Schickel nell’introduzione a Il grande uno rosso “sono ben pochi i libri o film di guerra che danno in maniera così persuasiva al lettore e allo spettatore la sensazione di che cosa significhi combattere da soldato semplice in un’immensa impresa bellica, della distinzione puramente casuale tra chi deve vivere e chi deve morire e dell’altrettanto casuale elargizione ai soldati dei momenti di gloria”. Una contraddizione non è mai facile da spiegare, ma c’è qualche romanzo che, cercando di raccontare la seconda guerra mondiale, ha infine ricreato un’immagine concreta della follia nella vita e nella morte dei soldati nel ventesimo secolo. Tra gli altri, Il nudo e il morto di Norman Mailer, Comma 22 di Joseph Heller, La sottile linea rossa di James Jones e, appunto Il grande uno rosso, hanno molto in comune nella loro “lettura” della guerra perché, come dice Samuel Fuller nel suo epilogo sanno che “la guerra significa morte”, ma non solo. Significa la follia di vivere, e più spesso morire, in “un sogno dal quale non ci si poteva riscuotere, perché non c’era nessun sogno da scacciare. Era realistico in un mondo irreale”. “Vivere, vivere, vivere” che è poi l’unica e l’ultima vera conquista in guerra, o “l’unica vera gloria” per dirlo ancora con Richard Schickel, dipende per gli uomini che portano il grande uno rosso, così come per tutti gli altri soldati, dalla gestione quotidiana, secondo per secondo, di un linguaggio che si nutre di superstizioni, di storie, di battute, di fantasmi, di aneddoti. Come se fosse in grado di bilanciare il caso che aspetta nel secondo successivo, qualche millimetro più in là, nella forma di un frammento di metallo che viaggia più veloce del suono. “Una pallottola vagante non aveva coscienza. Uccideva soldati armati e disarmati con la stessa oggettività con cui uccideva i civili. Non c’erano spettatori innocenti. Tutti erano bersagli in una zona di guerra. Chiunque si trovasse di fronte alla canna di un’arma da fuoco era il nemico” e si capisce già da questo passaggio che le linee di demarcazione se non il senso vero e proprio della battaglia sono imponderabili, una volta sul campo. Le immagini sono in grado di descrivere solo fino ad un certo punto il terreno scivoloso che, al fronte, divide la realtà dalla sua ricostruzione. E’ già un argomento metafisico e filosofico in condizioni “normali”, figurarsi nelle sabbie del deserto africano, per le strade italiane e sulle spiagge normanne dove la morte coltivava una delle sue più esuberanti stagioni. Per inciso, il viaggio nel Mediterrano e poi attraverso lo stretto di Gibilterra ha dell’epico, anche se, senza dubbio, il soldati del grande uno rosso direbbero di “non appestare l’aria con il tuo gas intellettuale”. E’ più spontaneo e naturale trovare un collegamento Comma 22 di Joseph Heller, diventato l’emblema delle follie militariste quando Samuel Fuller fa dire a uno dei suoi guerrieri: “Sapeva che in guerra esistevano leggi sui civili, ma sapeva anche che, siccome la guerra era pazzia, non potevano esistere regole tra pazzi”. Senza via di scampo.

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