giovedì 6 gennaio 2011

Jerome Charyn

Cosa succede se un poliziotto dalla morale inattaccabile e dal cuore fin troppo tenero, ma cresciuto rispondendo colpo su colpo alle durezze delle strade del Bronx diventa sindaco di quella Babilonia in terra che risponde al nome fittizio di New York? La risposta a questa domanda vale un milione di dollari, anzi di più: tutto il campionato di baseball americano e un intero quartiere a cui Isaac Sidel, detto il Puro, non esiterà un attimo a dedicare ogni sua forza per reagire a chi oserà calpestare impropriamente la terra del suo Bronx. Degno capitolo di quella saga metropolitana che annovera altri gioielli noir come Occhiblù e Marylin la Selvaggia, Bronx  sembra piuttosto un particolare estratto di Metropolis, probabilmente il capolavoro narrativo di Jerome Charyn. Perché è sempre New York (“L'unica città al mondo dove le comunità esplodono e muiono con tanta regolarità che nessuno se ne accorge”: la definizione è dello stesso Jerome Charyn, proprio in Metropolis), quella ragnatela di interessi, razze, uomini e donne che sembra vivere una vita propria, nascondendosi dietro le gesta insieme epiche e confusionarie di personaggi che si chiamano Joey Barbarossa, Candida Cortez e, al di là del bene e del male, lui, El Caballo, Isaac Sidel detto il Puro. Un sindaco che crede ancora di essere il poliziotto di un tempo e che non esita un secondo a tirar fuori la sua pistola (sempre nella cintola perché il Bronx è un posto dove una Glock è uno status symbol) per ristabilire la (sua) legge. Non inganni lo stile picaresco, volutamente caotico e surreale di Jerome Charyn: la visione alterata (ma nemmeno tanto) di eventi che potrebbero essere cronaca (nera) e dramma garantisce un ritmo serratissimo che fanno, sì, di Bronx  un perfetto romanzo noir (o thriller, o giallo o poliziesco) ma anche un bellissimo affresco della vita metropolitana americana: poliziotti che diventano delinquenti, circoli culturali dove si decidono i destini della città, bande metropolitane con nomi di tribù indiane, strade trasformate in campi di battaglia, squadre sportive dal taglio di associazioni a delinquere. Difficile credere sia soltanto Bronx, l'ultimo romanzo di Jerome Charyn. O è Jerome Charyn che, pur divertendosi ad inventare un noir dopo l'altro, ha capito tutto. O quasi, perché laggiù, come ovunque, la scrittura è anche autodifesa: “Ho cominciato a scrivere perché le parole erano l'unico mezzo per collegarmi al mondo. Non ho mai considerato la scrittura una professione, malgrado mi consentisse di guadagnare qualche soldo. E’ stata l’arma con cui combattere le scariche elettriche che mi vibravano nel cervello, un modo per trovare coerenza e musica, per risolvere il caos e allo stesso tempo per avvicinarmici senza essere risucchiato da qualche suo buco nero”. Come si può vedere, gli bastano poche righe di un'intervista (tratta da L'arte dello scrivere, a cura di Sybil Steinberg) per farsi capire e per suggerire uno spunto, un'idea, un briciolo d'ispirazione: un uomo del nostro tempo. 

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