martedì 30 maggio 2017

Wallace Stevens

Secondo Harold Bloom, Wallace Stevens è, sì, “un poeta canonico, forse il maggior poeta americano dopo Walt Whitman ed Emily Dickinson”, ma anche di fronte a questa monumentale collezione, rimane il sospetto che la sua collocazione rimanga sempre un po' indefinita. Dipenderà dal fatto che, pur riconoscendo la sua severità formale, come diceva ancora Harold Bloom, Wallace Stevens è stato “socialmente reazionario”, considerazione priva di connotati politici e dovuta al carattere di “eremita della poesia”. La condizione di solitudine, annodata al libero esercizio della lettura e della scrittura, conduce in “parti di un mondo” fatto di “parole precarie e suoni ostinati”. Qualsiasi particolare può essere avviato alla trasformazione in versi perché “la descrizione è un elemento come l’aria o l’acqua” ed è soltanto lo stadio iniziale per cui la poesia, almeno nelle mani di Wallace Stevens, diventa “una risposta alla necessità quotidiana di capire il mondo”. Più che del poeta, Wallace Stevens ha quel “senso del prestigiatore”, capace di far apparire e poi evaporare tra i versi “montagne coperte di gatti”, “le scogliere irlandesi a Moher” e “un vecchio filosofo a Roma”, “pietre grigie e piccioni grigi”, “l'uomo con la chitarra blu” e “una donna d'oro in uno specchio d'argento”, le “campane d'inverno” e “le aurore d'autunno”. Da profondo “conoscitore del caos”, Wallace Stevens sa attribuire a ogni stagione la perfezione di cadenze e luci appropriate, ma è nel “trasporto dell'estate” che trova il suo apogeo, non tanto per ragioni climatiche, quanto perché “la mente depone il suo disagio” ed è in quel momento che “la notte estiva è come una perfezione del pensiero”. L'enormità della raccolta sfoggia una volta di più la ricchezza della “materia poetica” di Wallace Stevens in tutta la varietà delle osservazioni e delle meditazioni, degli studi e degli inni, degli adagi e degli epigrammi. Un fiume che scorre trionfale, trascinando nella corrente credenze, finzioni, cronache e apparenze, ma che all'osservatore scrupoloso non riuscirà a nascondere le sue proprietà naturali. Notava infatti Seamus Heaney: “La combinazione in Stevens di esibizione sgargiante e una consapevolezza di fondo del senso ordinario delle cose ha una durezza intellettuale al suo centro, un atteggiamento che non viene a patti con nessun tipo di illusione o collusione”. Una valutazione importante perché Wallace Stevens ricorda con una certa frequenza, con toni e metafore differenti che a determinare il corso e l'ordine della vita sul pianeta della sua poesia non sono idee della cosa, “ma la cosa in sé”. E' lo stesso motivo per cui Ronald Sukenick, uno dei primi scrittori ad affrontare in modo sistematico la poesia di Wallace Stevens, la consideri come il frutto di un'incessante ricerca di “uno stato mentale”. La destinazione pare inevitabile poiché “viviamo nella mente”, solo che rimane da attraversare la distanza dalla realtà, che “è solo la base. Ma è la base”. Il genio di Wallace Stevens è proprio nella libertà dell'astrazione, che attinge a quell'unica, prosaica sorgente e si eleva “celeste e terrestre” nello stesso tempo. L'alfa e l'omega, e tutto quello che c'è nel mezzo. Indispensabile.  

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