venerdì 5 maggio 2017

Patti Smith

Prendere nota degli anni, perché la definizione dei limiti, quando l’arte è l’unico “movente”, è essenziale. Come è specificato con precisione, Il sogno di Rimbaud racchiude “poesie e prose 1970-1979”, anni di fame e di attrazione, di lampi e di Stratocaster, di alchimie e di anarchia. Proprio in mezzo, nel 1975, c’è lei, sulla copertina di Horses, ritratta da Robert Mapplethorpe, compagno e complice d’avventure. Lo snodo rimarrà sempre quello, e se ne trovano fragili tracce, sparse e nascoste sui bordi delle pagine che contengono Il sogno di Rimbaud, come piccoli segnali a ricordare “un tempo che sanguinava in altro tempo. Un tempo che noi aggredivamo, sfumando ed espandendo i perimetri dell’amore, della coscienza e del rimorso. Spinti dalla speranza comune di mostrare degli aspetti dell’arte, della poesia e del rock’n’roll, ma anche dell’amore fra gli uomini, che non si erano mai svelati prima”. Nell’avvertenza per il lettore, Patti Smith si spinge anche più in là, definendo i margini tra celebrazione e nostalgia, passato e futuro: “Eravamo innocenti e pericolosi come bimbi che attraversano un campo minato. Alcuni non ce l’hanno mai fatta. Ad alcuni la sorte ha riservato campi ancora più infidi. E ad alcuni pare invece sia andata bene, sono sopravvissuti per ricordare e rendere omaggio agli altri”. Dedicato più a se stessa che a Rimbaud, attraverso la lettura e la collocazione di compagni di viaggio, eroi, miti e passioni, Patti Smith sviluppa il moto perpetuo della sua insistente vocazione all’arte, con la famelica voracità dell’autodidatta e un’inesauribile curiosità. I nomi scorrono come un torrente gonfiato dalle piogge della primavera e in un felice disordine appaiono: Edgar Allan Poe, Picasso, Rothko, Brancusi, Edith Piaf, William Burroughs, Bresson, Diego Rivera, Pollock, Pasolini, Michelangelo e Robert Frank. Davanti alle fotografie in bianco e nero di The Americans, Patti Smith tenta ancora di “decidere cosa vuol dire essere americana”, ed è uno degli infiniti giochi di parole, rebus e associazioni che costellano Il sogno di Rimbaud. Il flusso di coscienza è più diretto, immediato e innocente quando si tratta di rock’n’roll perché “la musica è viscerale, poesia come intreccio, una poesia è un insieme di parole”. Little Richard, Mick Jagger, Brian Jones, Jimi Hendrix, Dylan vengono evocati in continuazione, con assiduità, visto che “la chitarra elettrica è una voce non meno che un congegno”. Più di tutti, in realtà, Il sogno di Rimbaud è popolato dal fantasma di Jim Morrison, “il nostro agnello di cuoio” che appare a più riprese tra brandelli delle canzoni dei Doors e le preghiere che Patti Smith gli riserva, quasi come un rito quotidiano. Ancora a lui è dedicata un’ampia parte nella coda che conclude Il sogno di Rimbaud, con L’urlo della farfalla. Le “riflessioni su An American Prayer” riguardano l’album postumo assemblato dai Doors e pubblicato verso la fine del 1978. Le date cominciano a farsi interessanti perché Il sogno di Rimbaud viene delimitato in sostanza dalla scomparsa di Jim Morrison e dalla resurrezione della sua voce, anche se, come ammette Patti Smith, “c’è un che di vagamente sacrilego nello scrutare un artista attraverso le mani degli altri”. A quel momento, con il “bacio assoluto” e la “carezza della morte” di Jim Morrison, Patti Smith riannoda il ricordo dell’ultimo concerto di quella stagione, quello di Firenze. La gioia della libertà e le “future fragranze” si scontrarono con un altissimo prezzo da pagare e qui le coincidenze non mentono, anzi sono più eloquenti della poesia perché Il sogno di Rimbaud è diventato di pubblico dominio insieme alla rivisitazione digitale di An American Prayer, quando Patti Smith aveva ormai imparato a portare il “fardello della mutazione”. Si era ormai prossimi alla fine del ventesimo secolo, e magari “il quadro non è completo, ma la parte migliore del viaggio resta intatta”.

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