domenica 7 maggio 2017

Lydia Davis

I racconti di Lydia Davis vanno letti (almeno) due volte, forse tre. Quelli più brevi, in particolare, sembrano bozzetti che rivelano, come scrive in Il viaggio del signor Burdoff in Germania, “una fresca innocenza mentre espongono la loro debolezza” e sono immediatamente riconducibili al frammento di un’opera più che a un’opera vera e propria. Preso atto che “sono solo le parole in quanto tali a intendere quello che dicono”, dalla seconda lettura in poi cominciano a mostrare una filigrana raffinata dentro l’ossessione per il ritmo di Lydia Davis. I nomi, i caratteri, le descrizioni degli ambienti sono relativi, ma la trama viene in superficie e dopo un po’, i protagonisti prendono forma e sono spesso uomo e donna, marito e moglie o comunque personaggi per cui, come scrive in Che cos’era interessante, “il fatto che fossero coinvolti in una relazione amorosa avrebbe dovuto essere interessante, perché di solito è più interessante quando c’è una relazione, di qualsiasi tipo, piuttosto che quando non c’è, e una relazione amorosa sofferta dovrebbe essere più interessante di una facile”. Il pensiero è sempre rivolto all’altro, a una rapporto all’interno di un’equazione, visto che la scrittura di Lydia Davis solleva dei punti di domanda, per quanto mai espliciti o diretti, come succede in Un paio di difetti che ho: “Ci sarà sempre un momento, quel giorno o uno o due giorni dopo, in cui mi porrò quella domanda difficile, una volta sola, o tante volte di seguito, una domanda inutile, in realtà, perché non sono io che posso rispondere e chiunque altro ci proverà darà una risposta diversa, anche se ovviamente la somma di tutte le risposte potrebbe risultare essere quella giusta, ammesso che esista una risposta giusta a una domanda del genere”. Si nota, già da questo passo, come l’impostazione sia sempre in funzione della cadenza e l’arte della reiterazione è sublimata in ritagli di una pagina proprio come se Lydia Davis seguisse dei codici particolarissimi, dettati dalle parole, e soltanto da quelle. Anzi, dagli spazi occupati, o non occupati, dalle parole, dalle battute seguendo un’improvvisazione di stampo jazzistico o le volubili variazioni di Glenn Gould, a cui è dedicato uno dei racconti più intensi dell’Inventario dei desideri. A volte si tratta proprio di sequenze progressive, e succede in Jack della campagna, Problema e Gli attori, con le medesime incognite. E’ un senso unico e univoco che Lydia Davis esplora fino all’eccesso, nella riflessione e nell’introspezione, celebrata in Una seconda possibilità: “Se solo avessi la possibilità di imparare dai miei errori, lo farei, ma sono troppe le cose che non si fanno due volte; anzi, le cose più importanti sono proprio quelle che non si fanno due volte, e quindi uno non le può fare meglio la seconda. Fai un errore e capisci che sarebbe stata la cosa giusta da fare, e sei pronto a farla, qualora dovesse ripresentarsi l’occasione, ma poi l’esperienza successiva è molto diversa, e fai altri errori di valutazione, e anche se a quel punto sei preparato per l’esperienza qualora dovesse ripetersi, non sei preparato per l’esperienza successiva”. L’idea, neanche a dirlo, è ribadita e ampliata in Liminale: l’omino: “Nel momento in cui si raggiunge un limite, quando davanti non c’è nient’altro che buio, compare ad aiutarci qualcosa che non è reale. Per un altro verso tutto questo è simile alla pazzia: un pazzo che non trovi aiuto ai suoi problemi in nulla di reale comincia ad affidarsi a ciò che non è reale perché vi trova aiuto e ne ha bisogno dato che le cose reali continuano a non aiutarlo”. Rimane una scaltra ironia perché Lydia Davis sa, come scrive in Estratti da una vita che “l’arte non si trova in un qualche luogo lontano”, ma poi insiste nel paradosso fino all’ultimo calembour, in Esempi di confusione, dove dice: “Mi è stato così difficile trovare questo posto, che penso di non averlo trovato”. Sorprendente, singolare, spiazzante.

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