I
racconti di Lydia Davis vanno letti (almeno) due volte, forse tre.
Quelli più brevi, in particolare, sembrano bozzetti che rivelano,
come scrive in Il
viaggio del signor Burdoff in Germania,
“una fresca innocenza mentre espongono la loro debolezza” e sono
immediatamente riconducibili al frammento di un’opera più che a
un’opera vera e propria. Preso atto che “sono solo le parole in
quanto tali a intendere quello che dicono”, dalla seconda lettura
in poi cominciano a mostrare una filigrana raffinata dentro
l’ossessione per il ritmo di Lydia Davis. I nomi, i caratteri, le
descrizioni degli ambienti sono relativi, ma la trama viene in
superficie e dopo un po’, i protagonisti prendono forma e sono
spesso uomo e donna, marito e moglie o comunque personaggi per cui,
come scrive in Che
cos’era interessante,
“il fatto che fossero coinvolti in una relazione amorosa avrebbe
dovuto essere interessante, perché di solito è più interessante
quando c’è una relazione, di qualsiasi tipo, piuttosto che quando
non c’è, e una relazione amorosa sofferta dovrebbe essere più
interessante di una facile”. Il pensiero è sempre rivolto
all’altro, a una rapporto all’interno di un’equazione, visto
che la scrittura di Lydia Davis solleva dei punti di domanda, per
quanto mai espliciti o diretti, come succede in Un
paio di difetti che ho:
“Ci sarà sempre un momento, quel giorno o uno o due giorni dopo,
in cui mi porrò quella domanda difficile, una volta sola, o tante
volte di seguito, una domanda inutile, in realtà, perché non sono
io che posso rispondere e chiunque altro ci proverà darà una
risposta diversa, anche se ovviamente la somma di tutte le risposte
potrebbe risultare essere quella giusta, ammesso che esista una
risposta giusta a una domanda del genere”. Si nota, già da questo
passo, come l’impostazione sia sempre in funzione della cadenza e
l’arte della reiterazione è sublimata in ritagli di una pagina
proprio come se Lydia Davis seguisse dei codici particolarissimi,
dettati dalle parole, e soltanto da quelle. Anzi, dagli spazi
occupati, o non occupati, dalle parole, dalle battute seguendo
un’improvvisazione di stampo jazzistico o le volubili variazioni di
Glenn Gould, a cui è dedicato uno dei racconti più intensi
dell’Inventario
dei desideri. A
volte si tratta proprio di sequenze progressive, e succede in Jack
della campagna,
Problema
e Gli attori,
con le medesime incognite. E’ un senso unico e univoco che Lydia
Davis esplora fino all’eccesso, nella riflessione e
nell’introspezione, celebrata in Una
seconda possibilità:
“Se solo avessi la possibilità di imparare dai miei errori, lo
farei, ma sono troppe le cose che non si fanno due volte; anzi, le
cose più importanti sono proprio quelle che non si fanno due volte,
e quindi uno non le può fare meglio la seconda. Fai un errore e
capisci che sarebbe stata la cosa giusta da fare, e sei pronto a
farla, qualora dovesse ripresentarsi l’occasione, ma poi
l’esperienza successiva è molto diversa, e fai altri errori di
valutazione, e anche se a quel punto sei preparato per l’esperienza
qualora dovesse ripetersi, non sei preparato per l’esperienza
successiva”. L’idea, neanche a dirlo, è ribadita e ampliata in
Liminale:
l’omino: “Nel
momento in cui si raggiunge un limite, quando davanti non c’è
nient’altro che buio, compare ad aiutarci qualcosa che non è
reale. Per un altro verso tutto questo è simile alla pazzia: un
pazzo che non trovi aiuto ai suoi problemi in nulla di reale comincia
ad affidarsi a ciò che non è reale perché vi trova aiuto e ne ha
bisogno dato che le cose reali continuano a non aiutarlo”. Rimane
una scaltra ironia perché Lydia Davis sa, come scrive in Estratti
da una vita che
“l’arte non si trova in un qualche luogo lontano”, ma poi
insiste nel paradosso fino all’ultimo calembour, in Esempi
di confusione,
dove dice: “Mi è stato così difficile trovare questo posto, che
penso di non averlo trovato”. Sorprendente, singolare, spiazzante.
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