Di fronte al suicidio dell’amico (quasi fratello) Harris, Sarah Manguso si aggrappa a tutto quello che gli rimane e non c’è molto, oltre alla scrittura. Nel suo caso è una trappola, non meno pericolosa degli “episodi” che hanno condotto Harris a lanciarsi contro un treno. Il dilemma è inattaccabile: “Non ho nessun interesse a costruire una storia vera sull’impalcatura artificiale di una trama, ma qual è la storia vera? Il mio amico è morto. E questa non è una storia”. Il salto non è nemmeno un romanzo, se è per quello, questa chiarezza, la precisione nella scelta delle parole, l’accuratezza delle frasi, l’identificazione delle emozioni, la loro collocazione non consente dubbi, o altre aspettative. La ricostruzione del suicidio in effetti è il grimaldello con cui Sarah Manguso riesce a scardinare le serrature del disagio mentale, della sofferenza e della dipendenza dai farmaci (effetti collaterali compresi nel prezzo). Un livello che Sarah Manguso non teme di affrontare, dove anzi si rivela lapidaria quando dice che “la diagnosi dipende dalle affermazioni di una persona le cui affermazioni sono, per definizione clinica, inaffidabili”. Il paradosso aiuta a capire che “non c’è niente da misurare, solo giudizi su cosa è insolito o bizzarro, cosa costituisce una difficoltà o incapacità”. Qualcuno apre una porta, o la chiude, e il riferimento costante all’idea stessa del suicidio, compreso il fantasma di Spalding Gray, accostato in parallelo all’11 settembre 2001 si riflette nei movimenti, un paragrafo dopo l’altro, come la stessa “fisarmonica” a cui pensa Sarah Manguso mentre guarda le Twin Towers che crollano. La collocazione di Harris nell’elaborazione del lutto e del dolore è faticosa perché Sarah Manguso si scompone tra l’esigenza del ricordo e quel tentativo di non inventare niente votato al fallimento, fino all’unica “spiegazione reale: l’amore rimane. Non c’è altro conforto”. L’elegia per un amico si trasforma in un flusso di coscienza, un po’ autoanalisi, un po’ invettiva, anche se il bersaglio resta inafferrabile, il tono, non addomesticato, sparato in faccia, è palese. “Non mi interessa scoprire come gli altri recitano il dramma della loro rovina. Voglio sapere del mio dolore, come quello di tutti” dice Sarah Manguso e tornare al suicidio implica scendere ancora e ancora nel tunnel della metropolitana, rivivere all’infinito “la nostra dose di tragedia”. Concentrarsi su quel singolo istante in cui Harris, credendo, forse per la prima volta, di poter disporre della sua vita, decide di spiccare Il salto che la concluderà, lì, sui binari. E’ vero che il suicidio è “una soluzione a portata di tutti”, un gesto unilaterale di unica, disperata e profonda liberazione, ma è anche vero che incide l’anima, “come se il tempo avesse commesso un errore”. Troppo definitivo per una cosa così provvisoria quale è la vita. Questo Sarah Manguso lo sa bene (i suicidi che deve affrontare sono due, tra l’altro) e non si accontenta. Nella ridefinizione di Sarah Manguso, Il salto è quasi un calvario laico, con le sue stazioni, i suoi livelli, il suo rosario snocciolato nel tentativo di trovare una soluzione a quella complicata equazione che dice: suicidio per affrontare la vita uguale morte, risultato finale che non cambia mai. L’incognita è sempre quella possibilità, quell’estrema chance, che resta lì, come un’accusa in attesa di giudizio, visto che “il problema non è tanto che il mio amico è morto, ma che io non so descrivere il problema secondo principi primi. Tutte le parole che conosco hanno perso la loro precisione nella storia”. Il salto è un’esperienza che graffia la pelle, anche se nelle sue brevi cento pagine Sarah Manguso pretende ben poco dal lettore, grazie a uno stile chiarissimo, a tratti persino elementare. Chiede attenzione, quella sì, per forza, ma Il salto non fornisce le risposte, visto che “scrivere non è mai davvero sicuro. Si scrive in un istante, l’istante in cui la realtà è meno mutevole, e poco dopo quella realtà sbiadisce, si avvicina allo zero”. Il passaggio matematico è inevitabile, ma come si intuisce nella volontà di Sarah Manguso l’esercizio della scrittura ha una specifica funzione nell’ordinare il pensiero e i suoi disturbi, poi ci vuole fortuna, perché “le pagine vanno riscritte e annerite molte volte, ma c’è sempre molto da ricordare e molto da scrivere”. Coraggiosa.
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