lunedì 29 maggio 2017

Charles Simic

La selezione dei materiali racconti in La vita delle immagini non segue un ordine preciso, anche se l'acuta percezione di Charles Simic è un collante più che sufficiente a permettergli di notare come “per un attimo, tutto si riconcilia: la poesia, la filosofia, la storia. Vedo (nel senso che riesco a immaginare e a sentire) il peso umano della solitudine di un altro. Tanti esseri umani seduti con un libro. Si fa giorno. Il pensiero diventa immagine. L’immagine diventa pensiero”. In effetti, parte proprio da se stesso: lettore vorace e onnivoro, ascoltatore appassionato, buongustaio curioso, colto e cosmopolita, Charles Simic assembla La vita delle immagini partendo da una prospettiva singolare, che poi è una sorta di autoritratto: “Il mondo cerca sempre di premiare il conformismo. Ogni epoca ha la sua linea ufficiale riguardo a ciò che è reale, ciò che è bene e ciò che è male. L’ideale è un bel piatto di disonestà, ignoranza e viltà servito tutte le sere dal telegiornale con modi compassati e un’aria di superiore integrità. E ci si aspetta che anche la letteratura si ispiri a quel modello. La tribù cerca sempre di rieducarci e di insegnarci le buone maniere. Il poeta è il ragazzino che, in piedi nell’angolo, dando le spalle al resto della classe, si sente in paradiso”. Eccolo lì, dove si sceglie una bella compagnia a cui dedicare le sue attenzioni: Buster Keaton, Marina Cvetaeva, Emily Dickinson, William Carlos Williams, John Cage, Walt Whitman, Witold Gombrowicz, Emil Cioran, Franz Kafka e Wallace Stevens vengono citati, raccontati e spiegati in quel perimetro dove “l’immaginazione di tutti gli artisti è uno specchio in cui guardare la realtà, interna ed esterna, ma il modo in cui le due realtà finiranno per mescolarsi nel riflesso, colui che regge lo specchio potrebbe non sospettarlo neppure. Perché i demoni dentro di noi sono tutti poeti, e tali, per fortuna, sono anche gli angeli”. Se Charles Simic ha una visione unica della poesia dipende proprio da quella constatazione: “Non fa assolutamente differenza se dèi e demoni esistono oppure no. L’aspirazione segreta di ogni vera poesia è quella di porre domande su di loro anche nel momento in cui non se ne riconosce l’assenza”, o detto altrimenti, il suo scopo “è trovare, mediante la lingua, dei modi per indicare ciò che non può essere messo in parole”. Il tentativo è elogiato da Charles Simic in tutte le sue declinazioni, dalla fotografia al cinema, visto che “l’arte è lo strumento più profondo mai conseguito dall’uomo; senza di essa non potremmo spere che cosa pensi o provi realmente una persona. Contrariamente al filosofo, al moralista, al prete, l’artista è impegnato in un gioco senza fine, che ha diritto di esistere soltanto nella misura in cui sa aprirci gli occhi alla realtà, una realtà nuova, a volte scandalosa, che l’arte rende palpabile”. Straniero e (ormai) americano, il suo punto di vista e la sua collocazione rimangono scomode e privilegiate nello stesso tempo: la (magica) ricostruzione dell'infanzia a Belgrado e poi le polemiche affrontate nel corso delle guerre dei Balcani sul finire del ventesimo secolo portano il poeta a rivelarsi con ancora più forza e non tanto perché “ci sono momenti della vita in cui l’invettiva è sacrosanta, in cui sentiamo l’assoluta necessità, motivata da un profondo senso della giustizia, di denunciare pubblicamente, irridere, vituperare, inveire, recriminare con le parole più forti possibili”. E' proprio per la scelta di privilegiare La forza dell'ambiguità e Il potere dell'invenzione che Cibo e felicità possono convivere in un Paradiso spaventoso, circondati dal blues e dall'architettura di New York, dalla poesia come “arte della memoria” e dalla filosofia come “un tornare a casa”. Lì si riparte dalla fotografia iniziale, che è anche quella definitiva perché “ci sarà sempre qualche lettore solitario per il quale un libro di un altro luogo e di un altro tempo miracolosamente prende vita”, ed è questa, infine, la trionfale celebrazione di un mondo notturno, silenzioso e meraviglioso.

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