Scorrendo
le pellicole che più ha amato, in Remotamente
su questi schermi Gore Vidal si
lascia convincere da una considerazione che, pur partendo dall’intima
natura cinematografica, si rivolge a un orizzonte decisamente più
ampio: “Non penso che nessuno abbia mai trovato allarmante l’idea
che non importa tanto quello che le cose sono, quanto come esse
vengono percepite. Percepiamo, per esempio, per esempio il sesso non
tanto come esso è nella sua dimostrabilità, quanto come pensiamo
debba essere, una volta da noi accuratamente distorto attraverso le
chiese e le scuole, la stampa e, con esultanza, il cinema, il quale
in fin dei conti è la sola convalida alla quale tutto il tedioso
mondo anteriore della realtà, deve sottoporsi”. Il sesso non è
l’argomento principale di Remotamente
su questi schermi. La spinta viene
dalla (prima) guerra del Golfo perché, come scrive Gore Vidal “nel
febbraio 1991, la storia è stata inventata davanti ai nostri occhi”,
e a quella (e alla politica), sovrappone l’autobiografia e il
cinema (nonché la televisione e l’immagine in tutte le sue
estensioni). I tre strati vivono in simbiosi, non sempre pacifica, ma
con un ritmo indolente e costante, punteggiato da una sana ironia,
Gore Vidal li associa in modo spontaneo, senza soluzione di
continuità. La saga del complesso albero genealogico della sua
famiglia, due guerre mondiali concluse da “un’enorme nube fallica
seminatrice di morte” si intersecano con l’epopea del cinema
visto che “i film sono la lingua
franca del ventesimo secolo”. Non
è soltanto quello: lo schermo e il buio della sala offrono l’humus
ideale per deformare la storia, per ricondurla alla versione utile al
governo di turno, all’emergenza del momento mentre, come spiega con
meticolosa precisione Gore Vidal, “una funzione primaria della
narrativa è quella di produrre empatia a beneficio di tutti coloro
che altrimenti mancherebbero delle capacità di comprendere quanto
un’altra persona sente o pensa”. Gore Vidal dissimula l’obiettivo
nelle lunghe pagine in cui ricorda, racconta e celebra le produzioni
delle dinastie di Hollywood all’epoca dei film muti e in bianco e
nero, Frank Capra e Orson Welles, Eudora Welty e Mark Twain con Il
principe e il povero, poi ammette
che il cinema propaga “quel tipo di conoscenza profonda del cuore
umano che si acquista dall’aver visto tanta storia sullo schermo”.
Si capisce che il mezzo è ambivalente, la lezione resta disattesa ed
è lì in mezzo che la lettura cinematografica diventa una critica
più lungimirante: “A parte gli attori, è interessante notare
quanta poca empatia venga coltivata o apprezzata nella nostra
società. Lo attribuisco al nostro tradizionale razzismo e alla
nostra ossessiva faziosità. Anche così, si potrebbe pensare che
dovremmo sentirci incoraggiati a proiettarci nella personalità di
qualcuno di razza o classe differente, se non altro tenerlo sotto
controllo. Tuttavia non facciamo alcuno sforzo”. Messa da parte
l’empatia, la limitata visione si accorda con quelli che Gore Vidal
chiama “i fatti convenuti”, l’ultimo frutto di una metamorfosi
che ha sostituito la realtà e annullato la verità. Il processo è
lo stesso del cinema, solo che ormai “alla fine è colui che porta
la storia sullo schermo a fare la storia”. Basta riavvolgere quel
film fino al fermo immagine del 1991, per capire che Gore Vidal aveva
visto giusto. Fin troppo.
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