Una corsa a senso unico verso la morte, inseguendo le sirene dell’autodistruzione da Los Angeles a Las Vegas: un viaggio al termine della notte risoluto, convinto, inarrestabile, un suicidio lento, calcolato, minuzioso che procede per inerzia a colpi di alcol. Sempre più pesante, sempre più duro, illuminato dalle luci di parodie di città costruite nel deserto, ideale e plastico contrappunto della disperazione umana. A Los Angeles “le strade chiamate way corrono perpendicolari a quelle chiamate drive, ma questo dipende da dove finiscono gli angoli retti. Se Wilshire è considerata l’asse delle x, allora a Beverly Hills non è che ci siano poi molte verticali e orizzontali. Se Santa Monica è una x, ecco che non si riesce a distinguere nord da sud. Le strade sono belle, sì, ma non così belle, tutto sommato. La città gode di una fama esagerata”. A Las Vegas ogni porzione di visuale è un luogo diverso e tutti sono uguali: insegne che brillano senza sosta, camere d’albergo che si riempiono e si svuotano in continuazione, notte e giorno, giorno e notte, non c’è distinzione. E’ il capolinea a cui giunge Ben, il protagonista di Via da Las Vegas, con il suo unico proposito di farla finita, nel solo modo che conosce, ovvero bevendo fino a uccidersi. Essendo l’alcol uno dei fattori che l’hanno portato alla dissoluzione la spirale non ha via d’uscita: come dice Ben “forse ammazzarmi è un modo per bere”, e i titoli di coda sono scritti molto prima della fine, con un inchiostro trasparente chiamato tequila. L’unica increspatura al percorso verso la polvere è l’apparizione di Sera in quel rimasuglio sporco e disordinato di vita che rimane a Ben. Sera appartiene a quella categoria per cui gli uomini “possono investire cento dollari nell’affittare per trenta minuti un corpo femminile, e percepiscono questo investimento esattamente per quello che è: un affare di natura commerciale, non un trattato di filosofia”. Una puttana a Las Vegas non fa notizia e la stessa Sera ne è cosciente perché “come un esperimento inficiato alla radice dall’eliminazione di una variabile, la sua situazione richiede un giudizio. Ma lei non riesce a formularne; in realtà, non è convinta che sia davvero importante”. E’ nell’incontro con Ben, che John O’Brien riesce a rendere vivido e miracoloso, che si forma una fragile, provvisoria identità tra due disperati di natura opposta eppure convergente. Per Sera, che vive quella vita lì, “il suicidio, anche uno di quelli goffamente rappresentati negli sceneggiati del pomeriggio, ha l’effetto di irritarla, di farla sentire estranea a una specie che può produrre opzioni del genere”, e il suo improbabile legame con Ben è l’unica, rara scintilla di verità in una triste prigionia di false opportunità. Per Ben, Sera è la sola nota squillante che sente ormai troppo tardi perché “in realtà il dolore è crudele solo quanto il tempo che ci si spende sopra”. Parole che spiegano esordio e insieme addio di John O’Brien: due settimane dopo aver firmato per trasformarlo in film spegnerà le luci, come Ben, e senza avere una Sera accanto.
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