L’intreccio
è un folle e maleodorante caleidoscopio dove nessuno è innocente e
tutti sono impigliati in una rete a maglie fittissime di connessioni
e legami e sotterfugi che formano l’aria irrespirabile che porta
inevitabilmente a Tijuana. Attrici e politici, trafficanti e
poliziotti, giornalisti e truffatori: il magma di Tijuana,
Mon Amour mette
in scena una California oscura e corrotta, con un’anima tanto avida
quando cupa e distorta. Il prologo non consente esitazioni, visto che
ci sono quattro morti in tre pagine scarse: un omicidio e tre
sentenze capitali sono il giusto avvio di una storia sordida che
prende il largo da un presunto caso di corruzione discografica in cui
pare sia coinvolto niente meno che Frank Sinatra. La cantante si
chiama Linda Lansing e nell’inverno del 1955 spopola con una
canzone dal titolo enigmatico, Baby,
It’s Cold Outside.
L’insistente (a dir poco) programmazione sulla KMPC porta qualche
solerte poliziotto a fare le giuste domande a Flash Flood (un nome,
un programma), primo indiziato di usare la radio in modo non proprio
pulito. Le sue risposte sono lapidarie: “Che vi devo dire? La
canzone è ok e Linda Lansing è ok. Nessuno mi ha pagato per dirlo.
E’ veramente ok tutta la notorietà che sto ottenendo, gli indici
di ascolto della mia trasmissione crescono alla grande; quello che
non è per niente ok è come mi tratta la polizia. Certo, è ok
sentire che ci sono grossi nomi coinvolti in questa faccenda”. Il
tono è sempre questo e James Ellroy, calandosi con decisione in
Danny Getchell ovvero il protagonista di Tijuana,
Mon Amour,
punta dritto verso il fondo, senza ipocrisie politically correct e
anzi con un’irreverenza cinica e brutale quando dice che “la
libertà di parola dovrebbe essere sempre al servizio della verità,
e la verità è il mio mandato morale”. Magari Hush-Hush,
il giornale che dirige Danny Getchell, non è proprio esemplare in
quanto a coerenza e correttezza: ama pescare nel torbido e comunque
se il lavoro non gli manca mai, non è colpa sua. Fedele allo spirito
dei giornali d’assalto dell’epoca, e aggiungendoci un pizzico di
ulteriore acidità tutta sua, James Ellroy colpisce le frasi con
l’accetta, senza pietà per i personaggi, per la storia, per il
lettore: un ritmo incalzante, spregiudicato, irriverente e
martellante che mette nello stesso vortice Frank Sinatra (nell’occhio
del ciclone), Aldous Huxley, Sammy Davis Jr., Martin Luther King,
Marylin Monroe, Rock Hudson, Ava Gardner in un tourbillon frenetico e
feroce. Svelare qualche dettaglio di questa discesa agli inferi è
relativo. La sostanza, per dirla con Danny Getchell, è semplice:
“Avevo costruito un cazzo di colossale casino e fatto ammazzare un
poliziotto. Mi ero mandato a morte con le mie mani, e magari molto di
più”. La colonna sonora ideale, obbligatoria e a dispetto di Frank
Sinatra, è Tijuana
Moods di
Charlie Mingus, più o meno contemporaneo ai fatti raccontati da
James Ellroy (è stato registrato nel 1957 a New York) e altrettanto
convulso, caotico e intenso. Un’ottima associazione (a delinquere).
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