Nelle pagine di Privacy il sogno americano è scavato fino alle sue radici e riportato alla luce nella sua vera essenza, troppe volte dimenticata in favore di una versione più prosaica e senza dubbio più funzionale alle economie e ai mercati. Tenendo ben presente che, come scriveva Archibald McLeish “l’America non è né una terra né un popolo, è la forma di una parola”, William Faulkner scrive con una visione che va oltre i suoi tempi, verso una dimensione profetica, che comincia dalla decadenza dell’american dream, ovvero da quando “sostituimmo alla libertà la licenza”. Erano infinite le prospettive che lasciava intravedere il “nuovo mondo” americano: non soltanto territori e avventure e risorse a perdita d’occhio, ma l’inedita possibilità di seguire “l’aspirazione dell’uomo nel verso senso della parola aspirazione”. Con grave amarezza ed estrema lucidità William Faulkner ricorda che la storia non è andata così e “ciò che udiamo adesso è una cacofonia di terrore e mediazione e compromesso che semplicemente balbetta dei suoni: le parole vacue e altisonanti che abbiamo evirato da ogni significato, libertà, democrazia, patriottismo, e con le quali, infine risvegliatici, tentiamo disperatamente di nascondere a noi stessi quella perdita”. La prosa è inarrivabile e l’analisi del fallimento è nitida, profonda, chirurgica perché Privacy racconta come “quella lunga linea pulita, netta, semplice, costante, diritta, incontestabile, risplendente, da una parte della quale il nero è nero mentre dall’altra il bianco è bianco, è adesso diventata una mera angolazione, un punto di vista che non ha niente a che fare con la verità e nemmeno con i fatti, ma dipende unicamente da dove ci si trova quando li si osserva”. C’è qualcosa di straordinario in questa appassionata e accorata dissertazione, quasi un’arringa senza soluzione di continuità che spinge William Faulkner a proclamare: “Il cielo americano che una volta era l’empireo dei diritti civili, l’aria americana che una volta era il respiro vivente della libertà, sono adesso divenuti un’unica grande cappa di piombo il cui scopo è quello di abolire gli uni e l’altra, distruggendo l’individualità dell’uomo in quanto uomo grazie (a sua volta) alla distruzione delle ultime vestigia di quella privacy senza la quale l’uomo non può essere un individuo”. Il sogno americano, a dispetto dell’iconografia dei luoghi comuni e delle revisioni storiche, non era quello del self made man o della ricerca della felicità a tutti costi, anche perché, come scrive William Faulkner non era “semplicemente un’idea, ma una condizione”. La differenza è determinante perché presuppone un margine di sicurezza tra gli individui e le istituzioni, tra la libertà e il potere. Di più perché all’origine, l’american dream doveva essere “una condizione nella quale l’uomo non soltanto non sarebbe mai stato re, ma neanche avrebbe mai voluto esserlo”. Questo concetto l’avrebbe cantato anche Bruce Springsteen, ma, con il grido di dolore di William Faulkner, le terre americane erano già diventate Badlands.
lunedì 21 novembre 2011
William Faulkner
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