Una gran parte di Running Dog scorre come un thriller qualsiasi con uno sfondo spionistico non meglio precisato o quello con cui Don DeLillo prova a costruire “il senso di un qualcosa di straordinario sospeso appena al di sopra della nostra portata e al di là della nostra visuale”. La causa di tutto il gran movimento di agenti segreti, giornalisti, mercanti e killer dal grilletto fin troppo facile, è un presunto film pornografico girato nel bunker di Hitler negli ultimi giorni della sua vita. Un pezzo raro e ricercato dai collezionisti ma il cui valore materiale sollecita l’attenzione di più di un palato. Così si dipana Running Dog senza grandi emozioni (salvo una rapida sparatoria, peraltro molto improvvisata) nell’attesa del colpo di scena finale: una giornalista d’assalto, impegnata e radicale, un senatore azzimato, un agente leale al governo e una o più parti dei servizi segreti come schegge impazzite, un vecchio mercante e un giovane pornografo (con una guardia del corpo abulica) più altri personaggi di contorno si contendono il prevedibile crescendo alla ricerca della perversione e degli ultimi giorni di Hitler, sesso e morte uniti in un destino segnato dagli eventi storici. Come ha spiegato in un’intervista Don DeLillo: “Ciò a cui realmente miravo in Running Dog era il senso della terribile acquiescenza in cui viviamo, unita alla completa indifferenza nei confronti dell’oggetto. Dopo tutti i folli tentativi per impadronirsene, tutti improvvisamente decidono che beh alla fin fine forse non è così importante. Questo è qualcosa che secondo caratterizzava la nostra vita nel momento in cui il libro fu scritto. Credo che allora facesse parte della coscienza americana”. La storia, qui, langue, e langue molto. Ci si aspetta uno scatto di pornografia da un momento all’altro o un’azione violenta oppure qualcosa che sovverta l’ordine degli eventi in maniera netta, tagliente, o almeno, soltanto evidente. Invece, nessuna indicazione. Già il ritrovamento del famoso filmato è il primo colpo di scena che fallisce: Hitler interpreta Charlie Chaplin (questo, sì, un colpo di genio di Don DeLillo) che interpreta Hitler e le immagini non mostrano niente di perverso, se non il sovrapporsi della realtà e della fiction. Solo un uomo mascherato da buffone che gioca con dei bambini. Da lì in poi Running Dog non ha finale. Anzi, non he ha uno solo: ogni personaggio è lasciato al suo destino. Chi muore, chi si ritira dalla corsa, chi si nasconde. I fatti, semplicemente, si evolvono, progrediscono, maturano, seguono una loro continuità, trovano un loro ordine all’interno del grande disordine annunciato e si ridispongono per un altro caos. L’evoluzione è infinita e anche qui serve una piccola spiegazione di Don DeLillo sulla funzionalità di Running Dog quando dice che “sul piano strettamente teorico, l’arte è uno dei premi di consolazione che riceviamo per aver vissuto in un mondo difficile e a volte caotico”. In questa luce Running Dog ha un suo senso, solo che per trovarlo ci vogliono le istruzioni per l’uso e in un romanzo non sempre sono comprese nel prezzo.
lunedì 7 novembre 2011
Don DeLillo
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