mercoledì 30 novembre 2011

Henry Miller

Censurato, bandito, attaccato Tropico del Cancro è stato un caso umano più che letterario. L’americano che a Parigi sembrava godersela tra una libagione e l’altra e le peripezie erotiche, in patria aveva bisogno delle difese di Saul Bellow, John Dos Passos, Norman Mailer Bernard Malamud e William Styron, tanto da fargli dire, non senza amarezza: “L’America è meglio tenerla così, sempre sullo sfondo, una specie di cartolina postale a cui guardare nei momenti di debolezza. Così, tu t’immagini che sia sempre lì ad attenderti, immutata, intatta, un grande spazio aperto patriottico con vacche, pecore e uomini dal cuore buono, pronti a fottersi tutto quello che vedono, uomo donna o bestia. Non esiste l’America. E’ un nome che si dà a un’idea astratta”. Laggiù, dopo un’infinità di bootleg che lo aiutarono comunque a essere letto e apprezzato, Tropico del Cancro verrà accettato soltanto nel 1964 per quello che è: un romanzo coraggioso e spregiudicato e un momento fondamentale della letteratura occidentale del ventesimo secolo. A distanza di tutti questi anni il linguaggio scandaloso e le provocazioni pornografiche appaiono senz’altro coloriti, ma niente di più. Pericoloso e spiazzante è il salto di qualità, qualcosa che incide in modo indelebile nel modo di raccontare e di scrivere che Henry Miller riassume così nel cuore del Tropico del Cancro: “Una sola cosa mi interessa, ora, e ha per me un’importanza vitale: registrare tutto quello che nei libri è omesso. Nessuno, che io sappia, ha usato finora quegli elementi che sono nell’aria, e che danno scopo e motivo alla nostra vita. Soltanto gli assassini paiono trarre dalla vita una soddisfacente contropartita per ciò che vi mettono di loro. Il secolo vuole violenza, ma abbiamo soltanto esplosione mancate. Le rivoluzioni muoiono sul nascere, oppure riescono troppo in fretta. La passione si estingue subito. Gli uomini ripiegano sulle idee, comme d’habitude. Nessuna proposta che possa durare più di ventiquatt’ore. Viviamo un milione di vite nello spazio d’una generazione”. La svolta non è edulcorata, non si piega alle mediazioni, non concede spazio ai dubbi perché come scriveva George Orwell “gli orizzonti democratici sono finiti nel filo spinato”, eppure i luoghi comuni, il buon senso, le forme linguistiche benpensanti sono sempre lì, immobili e ipocrite. Invece dal suo esilio bohémienne Henry Miller va fino in fondo alla sua ricerca, alla sua arte, come aveva capito George Orwell: “L’uomo comune di Miller non è né l’operaio di stabilimento nè il piccolo borghese con una casetta di sua proprietà nei sobborghi, ma il derelitto, il déclassé, l’avventuriero, l’intellettuale americano senza radici e senza quattrini. Tuttavia le esperienze anche di questo tipo umano si confondono piuttosto estesamente con quelle di gente più normale. Miller è stato in grado di trarre il massimo profitto dal suo materiale piuttosto limitato perché ha avuto il coraggio di identificarsi con esso”. Questo faceva, e fa, paura: le idee, il sesso, la libertà di riconoscersi negli esseri umani. Imprescindibile.

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