venerdì 18 novembre 2011

Richard Brautigan

C. Card è uno dei private eye più insoliti nella storia del noir. La sua Babilonia è un luogo della mente in cui si rifugia a più riprese, mentre i suoi clienti attendono invano notizie delle missioni che gli hanno affidato. C. Card non ha tempo da perdere perché è troppo occupato a perdersi nei suoi voli pindarici, che in un modo o nell’altro puntano sempre con costanza alla fantastica idea di Babilonia. Persino oltre perché C. Card non consuma giorno dopo giorno soltanto Sognando Babilonia. Per quanto inconcludenti, le sue velleità di scrittore tendono all’assoluto, come spiega nel bel mezzo di Sognando Babilonia: “Ogni tanto mi piaceva giocare con la forma delle avventure a Babilonia. Potevano esser fatte come libri e mi figuravo nella mente quello che leggevo; più spesso però erano film, anche se una volta immaginai uno spettacolo teatrale, con me nella parte di un Amleto babilonese e Nana-dirat a recitare sia Gertrude che Ofelia. Lasciai lo spettacolo a metà del secondo atto. Un giorno bisogna che ci ritorni e lo riprenda da dove ho lasciato. Avrà un finale diverso da quello di Shakespeare. Il mio Amleto sarà a lieto fine”. Come Pesca alla trota in America, anche Sognando Babilonia si nutre della reiterazione di una visione che, paragrafo dopo paragrafo, prende tutta la forma e il ritmo di un ritornello che si moltiplica in una soffice nebbia tra ironia e nonsense. Ipnotico e surreale, con Sognando Babilonia, Richard Brautigan intraprende un trip psichedelico che attraversa forme e dimensioni, sempre teso verso una geografia onirica a cui non è estraneo nemmeno il suo bizzarro alter ego californiano, C. Card: “Mentre leggevo il romanzo paragrafo dopo paragrafo, pagina dopo pagina, traducevo nella mente le parole in immagini, da guardare e mandare avanti veloce come un sogno”. Il gioco di rimandi tra autore, protagonisti e le visioni che condividono è caleidoscopico e amaro nello stesso tempo perché alla fine Sognando Babilonia sembra attorcigliarsi in una spirale che ha il sapore dell’inevitabile: tutti e due (Richard Brautigan e C. Card) a disagio nella realtà e comunque imprigionati in un’identità evanescente, forse fin troppo generosa nell’evitare di essere circoscritta dai confini di una definizione. Diceva Richard Brautigan in Zucchero di cocomero: “Suppongo che sei un po’ curioso di sapere chi sono, ma sono uno di quelli  che non hanno un nome regolare. Il mio nome dipende da te. Chiamami semplicemente quello che stai pensando. Se pensi a qualcosa che successe molto tempo. Qualcuno ti fece una domanda e tu non sapesti la riposta. Quello è il mio nome. Forse stava piovendo molto forte. Quello è il mio nome”. Buona fortuna, dice C. Card mentre sta Sognando Babilonia all’infinito e insegue la sua fantastica Nana-dirat, bellissima proprio perché inafferrabile, meravigliosa perché creatura di una mente che inseguiva la libertà come se fosse un’avventura e custodiva quel miraggio in un mondo magari bizzarro e irrilevante ma molto, molto più gentile di quello cosiddetto normale.

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