Leggi qualcuno che sembra conoscerti a fondo, ed è il suo
diario, non il tuo: Una specie di solitudine è un libro che sanguina. Prendete
il mio corpo e il mio spirito sembra dire John Cheever rivelando la grandezza
di uno scrittore che si spoglia senza esitazioni davanti a uno specchio che in
realtà è una finestra spalancata sul mondo. Angoscia, passione, gioie e
tormenti: gli ups & downs di
John Cheever si susseguono senza soluzione di continuità, con un’aderenza alla
vita quasi morbosa e con una percezione che fluttua di giorno di giorno perché
“sembra che spesso quello che scambiamo per dolore o dispiacere sia la nostra
capacità di porci in un rapporto vitale con il mondo, con questo paradiso quasi
perduto. Certe volte ci svegliamo e ci accorgiamo che la lente che ingrandisce
l’eccellenza del mondo e della sua gente si è rotta”. Sempre molto acuto e
tagliente nel definire i profili dei suoi personaggi, John Cheever riversa le
stesse attenzioni a se stesso e trasforma i diari racconti in Una specie di
solitudine in una
sorta di romanzo crudo e drammatico. Una sofferenza enorme (in gran parte
dovuta al gin e al whisky), i controversi rapporti con le dimensioni
famigliari, l’assidua e il più delle volte infruttuosa ricerca di “una vita di
impossibile semplicità” e la continua rivendicazione di quella che John Cheever
chiama “la legittimità della diversità” e che non sembra riferirsi solo alla
sfera sessuale, sono i temi che si intrecciano e si sovrappongono nello
sviluppo di Una specie di solitudine. Dalle pagine, anche nei passaggi più duri, aspri e
disperati, emana un’incredibile energia con con John Cheever alimenta la sua
scrittura. Anche qui il rapporto è tutt’altro che lineare: avido lettore, ci
sono giorni in cui teme il confronto con i colleghi e amici (Saul Bellow,
Norman Mailer, John Updike e Vladimir Nabokov i più citati) e che nutrono il dubbio del fallimento (“Lo
stile della mia scrittura sarà sempre in certa misura prosaico”) e altri in cui
la necessità e l’indispensabilità della scrittura gli è più chiara perché
“scrivere è l’alleato di molte cose splendide, la fede, la curiosità e
l’estasi, e di molte cose brutte, imbrogliare, disegnare immagini oscene sulle
pareti dei bagni pubblici, assentarsi dalla partita di baseball per scaccolarsi
il naso in solitudine”. Senza alcuna precauzione, senza alcun inutile pudore,
John Cheever raschia la sottile pellicola che nello stesso tempo lega e separa
l’uomo e lo scrittore e condivide le sue confessioni più sentite, intime e
profonde tanto nei passaggi più significativi la prima persona singolare
diventa plurale. A quel punto John Cheever ci è più vicino che mai e non è
difficile riconoscersi nello stesso riflesso quando dice che “abbiamo quasi
tutto quello che desideriamo e di cui abbiamo bisogno eppure il nostro sentire
è saturato dal senso di disincanto, come un filamento elettrico che si riempie
di luce. Forse è solo che intravediamo la possibilità del fallimento oppure che
abbiamo bevuto troppo sabato sera”. Una specie di solitudine è un libro che puzza di vita,
quella vera.
Comprato! come pure di L'avvoltoio di Tom Franklin; il tuo blog, per una come me che ama la letteratura americana, è un attentato al potafoglio!
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