E’ incredibile come Leonard Cohen trasformi la
poesia in un linguaggio per parlare con se stesso, per riempire il diario della
sua vita perché “la poesia non è altro che informazione. E’ la costituzione
della nazione interiore”. Morte di un casanova in particolare si nutre
di una leggera anarchia dove la finzione suprema erutta in slang da bassifondi,
in particolare quando guarda verso ragioni pratiche (e non è impossibile
assecondarlo quando dice con Un proletario: “Gli esseri che si aggirano intorno a
questo tavolo hanno già rovesciato il mondo e poi ve l’hanno nuovamente
infilato su per il culo esattamente com’era prima”), anche se poi privilegia
liriche elaborate e sensuali, il suo personale work in progress. La poesia
raccolta in Morte di un casanova non è mai definitiva: si evolve in pagine di
prosa, in canzoni (come è risaputo), in un flusso inarrestabile di emozioni
convogliate, sillaba dopo sillaba in una forma instabile. Le poesie, a loro
volta, diventano preghiere, invocazioni, avvisi ai naviganti, fogli di
taccuino, rimasugli di sogni descritti una volta per essere dimenticati per
sempre (“Lo spirito s’è fatto carico di un po’ del lavoro sporco” scrive in Il
sogno)
e quella che in Dopotutto l’innamorato chiama “la falsa voce dell’armistizio”,
una specie di lingua che spiega come mai “l’amore contempla tutto”, peraltro
azzerata dal titolo Sono contento di essere sbronzo. Eccessivo,
contradittorio, spudorato come un’operazione a cuore aperto (lo ammette con L’altare: “Il cuore di un
traduttore che ha cercato di rendere in un linguaggio corrente gli ordini
superiori della pura energia, che non ha negato la propria inclinazione
all’obbedienza”), Morte di un casanova, è il cahier de doléances di un “amico
della neve” che usa le parole come un rabdomante per cercare qualcosa che
ancora non gli appartiene. L’ambizione è tenace, la presenza è forte, i versi
battono un ritmo serrato, dando spazio a toni dalle tinte forti: “Io sono la
voce che tu hai messo da parte perché era troppo rabbiosa ma quello che ho o ho
avuto da dire è tutto quello che avrai o avrai mai avuto”. Una confessione pura
e semplice raccolta proprio in Morte di un casanova: “E così è andata la
storia ma chi avrebbe detto mai che non ce ne frega niente che non ci riguarda
più. Come fare un viaggio sulla luna o un pianeta sconosciuto: non ha proprio
senso andarci se si deve andar così lontano”. Pur risalendo al 1978, Morte
di un casanova
sembra adattarsi in modo naturale e coerente alle recenti disavventure di
Leonard Cohen dove, e non è un caso, nei suoi legami amorosi è finito di tutto,
dalla sua percezione dell’arte al conto in banca. In prospettiva Il prezzo
di questo libro
anticipa e sublima : “Volevo finirla, ma non volevo finire: la mia vita
nell’arte. Avevo impegnato la mia salute più profonda per riuscirci. Il lavoro
andava ben al di là di questo libro. Adesso lo vedo. Mi vergogno di chiedervi
dei soldi. Non che voi non abbiate pagato di più per ottenere ancora meno. E’
così. Continuate a farlo”. Continuiamo, eccome.
Nessun commento:
Posta un commento