martedì 25 dicembre 2012

Chuck Klosterman

Cosa può fare un ragazzo del North Dakota, dove la massima eccitazione quotidiana è la discussione sulla potenza del motore dei trattori, e l’inverno occupa tre delle quattro stagioni che dovrebbero susseguirsi nell’anno? Se poi è uscito di casa per la prima volta nel bel mezzo della guerra fredda cosa gli rimane? “Poteva succedere di tutto, e forse prima o poi sarebbe successo, ma non sarebbe cambiato nulla. Nessuno sembrava preoccuparsi troppo per il gran numero di testate nucleari che i sovietici ci puntavano addosso: per quanto ne sapevo io, eravamo sull’orlo della guerra ventiquattro ore su ventiquattro e sette giorni su sette, ma questo faceva parte dell’essere americani” ammette con un certo candore Chuck Klosterman nelle prime pagine di Fargo Rock City ed è chiaro che quando gli capita in mano un nastro con Huey Lewis da una parte e un colata incandescente di heavy metal dall’altra non c’è partita. Come capita sempre, come è capitato a tutti (conosciamo molto bene quella sensazione) all’improvviso Chuck Klosterman, comincia a sentirsi meno solo e meno alieno. Sa che le immagini dell’heavy metal e del rock’n’roll sono costruite dettaglio per dettaglio ma, per sua ammissione, è “troppo stupido per essere influenzato dalla follia del marketing” e si concede, così come concede a tutti noi, il beneficio di aver trovato qualcosa nella musica (e non solo nell’heavy metal) che “non aveva niente a che fare con le cose di cui si parlava, il suo significato era quello che tutti potevano dargli”. Fin qui, le fondamenta di Fargo Rock City sono solidissime e concrete soprattutto perché la traballante apologia dell’heavy metal più posticcio e banale, dei luoghi comuni più elementari e consunti e dell’idea che anche entità come Mötley Crüe o Guns N’ Roses possano assumere valenze che forse nemmeno i loro componenti riconoscerebbero, risulta immediata e simpatica. Quello che succede addentrandosi in Fargo Rock City è che Chuck Klosterman riempie il serbatoio fino all’orlo di heavy metal, poi parte per la tangente frullando senza tante esitazioni i suoi excursus autobiografici con le vicende dei Van Halen o degli AC/DC, con le logiche (piuttosto meccaniche) dell’industria discografica, con i riflessi sociologici dell’alienazione nella provincia americana e spruzzando tutta la miscela con un sarcasmo effervescente e senza inibizioni. Il colorito ibrido che alla fine si cela dentro Fargo Rock City si regge sulle gambe come il frontman di un gruppo heavy metal alla fine di un tour worldwide. Non cade, però Chuck Klosterman sente la necessità di precisare le sue intenzioni, neanche stesse firmano una resa: “Vi starete chiedendo perché adesso stia parlando di tutto questo, e la risposta è che lo ritengo un esempio perfetto per mostrare quanto sia importante la percezione delle cose, che poi è il punto di partenza da cui costruiamo il contesto delle nostre vite”. Lo stile va su e e giù a birra e tequila (e ci sta), ma Fargo Rock City è molto più saggio (e rock’n’roll) di quel che appare. 

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