Dopo aver ascoltato Lou Reed per la prima volta, Suzanne Vega ha detto: “Cominciai a capire che potevo sperimentare. Si poteva scrivere una canzone senza un ritornello né una melodia. Non c’erano vincoli”. Sì, Lou Reed è stato l’artefice di una rivoluzione copernicana e Will Hermes ha bisogno di una biografia notevole e imponente per spiegarlo. Sono settecento pagine abbondanti e non tutte paiono così indispensabili: la ricostruzione delle radici famigliari che nei secoli arrivano fino in Polonia è macchinosa e fin troppo dettagliata. È vero che la cultura mitteleuropea avrà un peso significativo nell’espressione di Lou Reed, ma la sua proiezione verso il futuro meritava un altro slancio che viene compresso tra l’elettroshock, Delmore Schwarz, l’università e le origini primordiali di una personalità complessa. Con l’arrivo dei Velvet, la storia prende tutto un altro ritmo. Hanno cambiato il volto del rock’n’roll e Will Hermes puntualizza che per loro “l’attitudine estetica punk era un modo per sopravvivere in un mondo che voleva a tutti i costi ucciderti: il punto non era glorificare il punk, e neanche mandare affanculo il mondo, ma essere onesti sulle strategie che le persone adottano in una situazione disperata”. Lou Reed è davvero l’interprete di quel salto nel vuoto e aveva ragione John Cale: “Scriveva di cose di cui non parlava nessuno”. Su questo Will Hermes si spende con generosità ricamando a lungo sulle qualità letterarie di Lou Reed. Nessun dubbio, in proposito, inclusa l’influenza di Andy Warhol sui Velvet Underground: “Dal punto di vista estetico, Warhol sicuramente rafforzò e probabilmente amplificò l’idea di Reed di trovare la bellezza nel brutto, nel banale, nel vituperato e nel disprezzato; Warhol condivideva la predilezione di Reed per la ripetizione, il rumore, la distorsione e la frequente aspirazione alla trascendenza”. New York è limitata a una parte, il Lower East Side, come territorio in cui si incrociavano le tensioni di “una città che in fondo rispetta solo gli imbrogli”. Una definizione quanto mai pertinente, fin dalle prime esperienze nel music business, un mix tra ladrocinio e passione che come al solito Lou Reed affrontò a modo suo e che si può riassumente con una presentazione dal vivo dei Velvet Underground: “Non voglio che nessuno di voi ascolti le nostre canzoni in modo superficiale, perché sarebbe contro la politica nazionale, che fa pure rima, comunque. I poeti sono fatti così”. Patti Smith non comprendeva “l’intensità” di alcuni tratti come scrive in A Book of Days perché Lou Reed sapeva essere una bella spina nel fianco (eccome) e Will Hermes non risparmia nulla: i matrimoni e le separazioni, i contrasti con i manager e i discografici, i litigi con i musicisti, dai Velvet in avanti, la necessità di avere il controllo di sé, del suo lavoro e del suo personaggio. Interessante il parallelo con Frankenstein e Mary Shelley, anche lui una creatura che si ribella al proprio creatore solo che nel caso di Lou Reed le due figure coincidevano tant’è che Will Hermes lo definisce “un ventriloquo compassionevole che sembrava sempre intento a comprendere se stesso e il suo soggetto”. È proprio nel passaggio dai Velvet a Lou Reed che si addensa la popolazione che affolla la sua biografia: David Bowie, Jim Carroll, Jonathan Richman, Lenny Kaye, Iggy Pop, Lester Bangs, la stessa Patti Smith. Dalle gestazioni di Transformer e Berlin in poi, disco per disco, c’è tutto: la reunion provvisoria dei Velvet e la tragica storia di Nico, Doc Pomus, l’omaggio a Edgar Allan Poe e l’incontro con i Metallica. Al centro c’è comunque la personalità tormentata di Lou Reed, il tentativo di limitare i danni (“Mi hanno detto che devo sorridere quando dico una battuta. Così mi sto allenando”) poi i riconoscimenti (tardivi), l’incontro con Laurie Anderson e gli ultimi, drammatici momenti. Resta la brutale bellezza di New York, (l’album e la città, insieme) e in particolare la puntualità di Halloween Parade, come dire la nemesi di tutto un demi monde cominciato con Walk on the Wild Side e finito con le fosse comuni per l’AIDS nel Bronx, per non dire dell’11 settembre. Quella mattina, Lou Reed commentò: “Siamo a New York, sono cose che capitano”. Incredibile.
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