Jessica Lange, una che l’ha conosciuto molto bene, ha saputo ravvisare in Sam Shepard “quella sregolatezza, quella sregolatezza tipicamente americana”. Il tratto che si distingue in questa corposa e a suo modo definitiva biografia è proprio quello e si sviluppa fin dalle prime battute, dove Robert Greenfield racconta: “Quando Sam Shepard stava crescendo, la California era ancora la nuova frontiera dove tutto sembrava possibile, il vero West dove prevaleva ancora lo spirito del fuorilegge. Negli anni, questa sensibilità permeò il suo lavoro, consentendogli di mettere in scena una visione della vita americana mai vista prima sul palco”. Il rapporto conflittuale con il padre, un ufficiale dell’aeronautica militare reduce dalla seconda guerra mondiale, e il suo alcolismo saranno una costante, così come le fughe repentine e senza meta. Un’inquietudine che ha trovato il suo approdo naturale a New York, dove Sam Shepard comincia a scrivere: “C’erano così tante voci che non sapevo da dove cominciare. Era splendido, davvero. Mi sentivo come una specie di strano stenografo. Non intendo farla passare per un’allucinazione, ma di sicuro c’erano delle cose là fuori e io mi sono limitato a mettere per iscritto”. Non si è fatto mancare nulla: Patti Smith a Joni Mitchell nel turbinio del Rolling Thunder (dove Dylan appare in una stanza per poi ricorrere ovunque fino alla fine), Londra e Zabriskie Point, gli Holy Modal Ramblers e Paris, Texas, più di tutto la drammaturgia dalle minuscole sale del Lower East Side al premio Pulitzer, fino alla definizione del critico teatrale Michael Smith, per cui “la sua voce è distintamente americana ed è sua e di nessun altro”. Refrattario alle lusinghe dello showbiz, per tutta risposta al successo delle sue opere, Sam Shepard si è comprato una chitarra Stratocaster con il primo contributo della fondazione Rockfeller, giusto per qualificare la geografia di un indomito sognatore. Lì si addentra Robert Greenfield, che non ha soltanto una gran dimestichezza con il rock’n’roll, materia che ha bazzicato a lungo e che permea tutta la vita di Sam Shepard. Ha anche il pregio, non relativo, di una certa empatia con il protagonista. Una caratteristica non così scontata e quanto mai necessaria vista le turbolenze biografiche che si appresta a raccontare. Robert Greenfield lo fa con un tono molto rispettoso, ma senza esclusione di colpi, cercando di dare voce a Sam Shepard attraverso i suoi personaggi, quelli teatrali e quelli dei racconti e dei romanzi. Una saggia decisione perché Sam Shepard delegava alla fiction molte delle sue evoluzioni esistenziali, anche se Robert Greenfield ammette: “Non è mai stato facile da descrivere né da capire. Complicato e complesso sia come artista che come uomo, ha creato opere di prim’ordine pur rimanendo sempre un enigma, non solo per gli altri, ma anche per se stesso”. Lo stesso drammaturgo conferma l’impressione in una corrispondenza con l’amico Johnny Dark dove scriverà il 28 novembre 1983: “So di avere due parti in me che sono proprio incompatibili. Una è totalmente indisciplinata & vuole solo darsi all’avventura... E l’altra parte ha quest’aria da vita ordinata e disciplinata”. La contraddizione avrà riscontri dolorosi e in qualche modo curiosi, insiti già nel vero nome, Steve Rogers, che è lo stesso di Captain America, come se fosse una versione strampalata dell’eroe di Brooklyn. Ancora di più quando in Uomini veri interpreta Chuck Yeager, forse il più famoso pilota americano, lui che ha sempre odiato volare, preferendo guidare per migliaia di chilometri e chilometri, da costa a costa, in cerca di un luogo o di qualcosa mai ben definito, con Hank Williams nello stereo e le mani strette al volante. Puro movimento, finché un giorno, poco prima di tirare il sipario, Sam Shepard ha confessato: “Siamo diventati un’opera di Beckett... Sì, un’opera di Beckett”. L’assurdità della catastrofe acquista un senso in un frutto impazzito che, di motel in motel e di strada in strada, si è portato dietro un elenco spettacolare di attori e registi che si sono formati nelle sue pièce: Tommy Lee Jones, Gary Sinise, John Malkovich, Ed Harris, Ethan Hawke, Harvey Keitel, Sean Penn, Nick Nolte, Philip Seymour Hoffman, nonché l'intero immaginario di un’America che “non c’è più” e che forse è esistita soltanto nel gran teatro della sua mente.
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