lunedì 22 giugno 2020

Leonard Cohen

Per essere “uno che si impegna a descrivere un minuscolo angolino dell’universo”, Leonard Cohen si è concesso con generosità nel corso delle conversazioni raccolte in Il modo per dire addio. Si tratta di una vasta collezione di interviste che si estende su tutta la carriera e rappresenta una panoramica nello stesso tempo informale e ricchissima della vita e del lavoro di Leonard Cohen. Si parte sempre dalla constatazione che “non siamo noi a scrivere la trama, a produrla, a dirigerla e nemmeno a metterla in scena. Alla fine, tutti giungiamo alla conclusione che le cose non vanno esattamente come si era pianificato, e che l’intera faccenda si basa su qualcosa che ci è impossibile capire a fondo. Ciò nonostante, si continua a vivere la vita come se fosse reale” e, indipendentemente dalle circostanze e dagli interlocutori, le risposte tendono a indirizzare il confronto nel recinto del suo approccio alla scrittura. Il tema è costante e ricorrente, e, per quanto affiori con modalità distinte, mette in risalto la scrupolosa attitudine di Leonard Cohen nei confronti delle parole che, non a caso, comincia così: “Quando scrivo mi sembra sempre di raschiare il fondo del barile e mi ci vuole molto per portare a termine alcunché. Non provo alcun senso di privilegio o di esaltazione. Spero sempre di riuscire a tirare fuori qualcosa, qualunque cosa. Il desiderio di esprimersi c’è sempre, ma la capacità di farlo no”. Se nella definizione di Harvey Kubernik è un “impassibile portavoce degli esilaranti paradossi della condizione umana”, intervista dopo intervista, si prodiga a illustrare la genesi della scrittura, sia nello specifico della narrativa (“Quello che chiamiamo romanzo, cioè un libro in prosa con dei personaggi, uno sviluppo, dei cambiamenti e delle situazioni, mi ha sempre attirato, perché in un certo senso è l’arena in cui si misurano i pesi massimi. È un lavoro che mi piace, e mi spaventa, sotto quel punto di vista, perché richiede di sottoporsi a un regime rigoroso”) che più in generale (“È questo che ho cercato di fare, per essere autentico, accurato. E preciso. È qui che, chiaramente, entra in gioco la lingua: una parola tira l’altra, e, si sa, quando si usano le parole per esprimersi, ogni termine innesca una sorta di contagio, ha una sua predisposizione, una sua capacità di richiamare e accogliere altre parole. Ci si muove nel mondo del linguaggio, che ha le sue leggi e le sue regole”). Piano piano, Il modo per dire addio si può leggere come una manuale di istruzioni del labirinto di Leonard Cohen, con una serie di avvertenze molto esplicite. Intanto, bisogna ricordarsi che “l’esperienza è reale, ma si cerca di raccontarla con un pizzico di fantasia” e, di riflesso, che “le nostre necessità sono talmente vaste che non riusciamo nemmeno a definirle con precisione. Così produciamo migliaia di personaggi che siano in grado di parlarci, ma nessuno di loro lo fa in modo sufficientemente chiaro o preciso. Alla fine abbiamo tutti del lavoro da fare”. Questo è vero soprattutto perché “la natura stessa della scrittura prevede di ricominciare da zero” e di conseguenza “una delle caratteristiche imprescindibili di uno scrittore è non saper distinguere il proprio gomito dal proprio culo. Penso che parta tutto da lì, da una scarsa conoscenza di sé. La sensazione di non sapere cosa succede e di aver bisogno di riordinare l’esperienza sulla carta o in una canzone è una delle principali motivazioni di ogni scrittore”. Lo stimolo è indispensabile almeno quanto lo sforzo: le parole sono sfuggenti, ed “è proprio la scrittura a generare il piacere, l’interesse o la sfaccettatura che catturerà la luce”, ma il più delle volte ci si ritrova a vivere di sogni, sospesi tra l’inseguimento della verità e l’impulso a generare un grido di dolore. Ma Leonard Cohen sa essere affabile e si racconta con gusto e senza reticenze, comprese tutte le sue peripezie sentimentali, spirituali e discografiche quando è andato in cerca del “suono della battaglia nella voce”. Un passaggio dai contorni sfumati che Leonard Cohen rivendica così: “La pagina non era abbastanza, perché volevo viverlo!”, punto esclamativo compreso.

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