mercoledì 3 giugno 2020

John Cage

Le Parole vuote di John Cage navigano nelle pagine e la scrittura riesce ad assumere forme diverse, ed estreme. Il nucleo è costituito dalla rivisitazione del Finnegans Wake di James Joyce e dei diari di Thoreau (“Non si è intervenuti su niente: un diario di circa due milioni di parole è stato usato per rispondere a domande”), scomposti e rimodulati secondo quelle che chiama “operazioni casuali” e trasformati in processi grafici che restituiscono una certa libertà alle frasi “poiché le parole, quando comunicano non hanno effetto, è evidente che abbiamo bisogno di una società in cui la comunicazione non sia praticata, in cui le parole diventino nonsense come succede tra gli innamorati, in cui le parole diventino quello che erano in origine: alberi e stelle e il resto dell’ambiente primordiale. La smilitarizzazione del linguaggio: un importante compito musicale”. Si capisce che John Cage non offre alcun punto di riferimento: le Parole vuote possono essere interpretate in modi differenti, come strutture in movimento, trasformazioni e mutazioni con una concezione dei linguaggi poliedrica laddove “diventano musica, la musica diventa teatro; rappresentazioni; metamorfosi (fotogrammi da quelli che in realtà sono film). Da principio faccia a faccia; alla fine seduti con la schiena rivolta al pubblico (sedere con il pubblico), tutti hanno la stessa visuale. Obliqua, obliqua”. L’attitudine rimane quella anche nelle spiegazioni più formali, come la descrizione del “pianoforte preparato”: “Invece che con la possibilità di ripetizione, nella vita ci confrontiamo con la qualità e le caratteristiche uniche in ogni occasione. Il pianoforte preparato, le impressioni che ho tratto dal lavoro degli amici artisti, dallo studio del buddismo zen, dal vagabondare per campi e boschi in cerca di funghi, tutto mi ha portato al piacere delle cose così come vengono, come succedono, piuttosto che come si possiedono o si conservano, o sono costrette a essere”. Nel raccontare questa storia, come molte altre, la speranza dichiarata di John Cage è che ci siano “sempre più scoperte fatte da sempre più musicisti”. Per sé, John Cage trova una collocazione originale quando sostiene di fare qualcosa “che mi dà l’impressione di essere aereo”, ma che parte comunque dalla domanda essenziale: “Cosa si può fare con la lingua inglese? Usarla come materiale. Materiale di cinque tipi: lettere, sillabe, parole, frasi, periodi. Il testo di una canzone può essere un vocalizzo: solo lettere. Può essere solo sillabe, solo parole, solo una serie di parole; frasi. O una combinazione di lettere e sillabe (per esempio), lettere e parole, eccetera”. John Cage la usa in modo (quasi) tradizionale per raccontare la vita in tour di una compagnia teatrale, con tanto di menù e ricette, ma anche per confrontare l’utilizzo quotidiano del linguaggio: “Di tutte le professioni la legge è quella che meno si occupa di aspirazioni. Si occupa di precedenti, non di scoperta, di quello che è avvenuto in un dato tempo e in dato luogo, e non della visione e dell’intuizione. Quando la legge è corrotta, lo è perché concentra le sue energie nel proteggere il ricco dal povero. La giustizia è fuori questione. È questo il motivo per cui non solo le aspirazioni, ma anche l’intelligenza (come nel lavoro di Buckminster Fuller) e la coscienza (come nel pernsiero di Thoreau) sono assenti dalla nostra leadership”. Le osservazioni sono attuali, oggi più di allora perché John Cage ammette: “Io sono un ottimista. Questa è la mia raison d’être. Ma le notizie quotidiane mi hanno in un certo senso ammutolito”. Non è il solo, e serve, urgente, un rimedio: il senso di Parole vuote è “fare musica leggendo ad alta voce” e il consiglio finale di John Cage è limpido: “Prendi una lezione e poi prenditi una vacanza. Al di fuori della tua mente, vivi nei boschi. Dono incolto”. Un piccolo gesto che meriterebbe una rivoluzione.

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