martedì 20 novembre 2018

Kent Haruf

Nelle sue “origini” Holt era immaginaria né più né di tutto il resto del West. Siamo sul finire del diciannovesimo secolo e il corto circuito nasce dal fatto che l’arrivo nelle praterie, forzato dalle promesse del governo federale, dai toni enfatici della pubblicità e dagli interessi dell’industria ferroviaria, scoperchiava un’amara verità. L’Eden degli opuscoli non esisteva: la terra era piena di sabbia, il clima ostico e gli alberi, rigogliosi sulle cartoline, erano cespugli aridi e contorti. Il lavoro di contadini e allevatori sarebbe stato duro, faticoso, doloroso, animalesco. Sulle donne, oltre alle infinite incombenze domestiche, gravava anche il peso di edificare una parvenza di civiltà e così come osservava Jonathan Raban in Bad Land “eccolo lì quel mondo: un pugno di famiglie ben vestite e ben nutrite, raccolte attorno al corral. A vederle non si sarebbe mai immaginato che avevano reso possibile quella scena di vicini solidali, totalmente in pace con se stessi, e con gli altri”. Il ritratto, che mette in luce molti dei Vincoli di Ken Haruf, è falsato in giusta misura dalla speranza, visto che non esisteva alcuna possibilità di tornare indietro, ma ha il merito di far risaltare, per contrasto, la personalità di Roy Goodnough. Il suo nome nasconde già un calembour perché è buono, ma non abbastanza: scarica tutte le frustrazioni su se stesso, sulla moglie Ada, sui figli Lyman ed Edith, costretti a sopportarlo, come se non bastassero le asperità della vita dei coloni. Per Roy Goodnough vale, alla perfezione, l’anatema di Walt Whitman: “Maledetto ciò che si consuma senza pensare alle tare, alle sofferenze, agli sgomenti e alle debolezze che sta trasmettendo”. Legami che uniscono, e che dividono: Vincoli racconta la difficoltà di essere figli e figlie, di essere una famiglia attraversata da piccole e grandi scosse, smottamenti lenti e graduali o tratti che si sgretolano all’improvviso. Non sono solo i Goodnough, ci sono anche i Roscoe, e in particolare Sanders che, in quella che è quasi una lettera aperta, illustra direttamente al lettore, i tentativi di comprendere “la semplice, intensa magnifica bellezza del sentirsi vivi giorno dopo giorno, quando di sera vai a dormire nella calda oscurità, soddisfatto del tuo angolo di mondo, e poi ti svegli al mattino ancora soddisfatto e ne sei ben consapevole mentre resti sdraiato per un po’ ad ascoltare in pace il richiamo delle tortore dagli olmi e dai fili del telefono, finché al pensiero di un caffè nero finalmente decidi di alzarti dal letto, scendere le scale e andare in cucina, ai fornelli, per ricominciare tutto daccapo con piacere, addirittura con impazienza”. Il tono del racconto, placido, lineare, senza sbalzi, aiuta a collocare sorprese e colpi di scena, le nascite e le morti, le lunghe giornate impigliate nel filo spinato dei recinti, le fughe e le attese e, più di tutto, quei Vincoli che superano gli steccati “perché quando conosci qualcuno da tutta la vita, cerchi di capire il suo punto di vista. E quello che non riesci a capire, lo accetti e basta”. Sanders Roscoe ci dice che possiamo allontanarci finché vogliamo, quanto possiamo, ma torneremo sempre lì, dove “i legami erano stati sciolti, i confini di casa varcati”. Usando la sua voce, Kent Haruf dissemina possibilità, ma non costringe il lettore a inseguirne nessuna. Si torna lì, a quelle due case sulle colline, attorno a cui ruotano gioie (poche), dolori (parecchi), fatiche (immense) e una difficoltà insormontabile di collimare il tempo, tanto è vero che, Edith aspetta per anni il fratello, e Lyman non le concede nemmeno un attimo per non distrarsi dai suoi fantasiosi viaggi. L’inizio e la fine coincidono e la natura stessa del paesaggio si rivela in tutta la sua essenza quando  “gli sforzi umani dimostrano tutta la loro penosa futilità” come scriveva Thomas Hart Benton. Holt, a differenza della Trilogia della pianura, è un po’ più sullo sfondo, delineata ma senza tutti i dettagli che seguiranno, poi. È soltanto una frazione e l’immaginario di Kent Haruf è scomposto, non allineato, più vicino alla cruda realtà della frontiera che all’epopea del suo miraggio. Inevitabile l’accostamento a The River: coincidono gli anni e il titolo della prima canzone, ma soprattutto le esperienze dei protagonisti springsteeniani che nel loro continuo dibattersi tra partenze e arrivi ricordano, né più né meno dei Sanders e dei Goodnough, che certi legami non si spezzeranno mai.

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