martedì 2 gennaio 2018

Paul Auster

La vera ambizione del monumentale 4 3 2 1 è ricordare che “esiste sempre un’altra versione della storia”. Se è vero che il futuro non è scritto, Paul Auster deve aver pensato che si possono sfruttare delle alternate take per immaginare quella “parabola del destino umano e degli infiniti bivi che una persona deve affrontare durante il cammino della propria esistenza”. Eccolo seguire le avventure, le famiglie (ingombranti), le scoperte (prima il sesso, poi la cultura) di Archie Isaac Ferguson negli anni della sua formazione che vanno dal 1954 al 1970 (nella migliore delle ipotesi). Lo sfondo, molto mobile e in rilievo, è una forma dell’America fluttuante, tra la guerra in Corea e quella del Vietnam, i fratelli Rosenberg e i fratelli Marx, i Kennedy e Nixon, la corsa allo spazio e i diritti civili, gli scontri alla Columbia e le rivolte di Newark, il cinema e l’onnipresente baseball. Un substrato narrativo che rende 4 3 2 1 una specie di romanzo in cui gli eventi politici, economici e storici in generale costituiscono i moventi che spostano i destini dei protagonisti, a partire proprio dalle identità di Archie Ferguson. Sempre affamato di vita, di conoscenza, di indipendenza, di movimento, si troverà circondato dalle vicende di parenti e amici, sarà più o meno fortunato, e si dedicherà alla lettura e alla scrittura con risultati alterni. Le quattro variabili hanno in comune le figure femminili della madre (Rose, determinante) e dell’innamoramento per Amy (a volte corrisposto, a volte no) e Parigi come un giro di boa che conduce, in tutti i casi, verso i relativi finali. Nel giocare con il destino di Archie Ferguson, Paul Auster ha lasciato la porta aperta, accordandosi a un tono è cauto, levigato, quasi sottovoce, come un racconto al bancone del bar o una chiacchiera al barbecue, con un solido sfondo autobiografico. Uno schema funzionale nel tentativo di dare un ordine e una coerenza alle emozioni, alle notizie, ai volti di una folla di personaggi che ruota intorno ad Archie Ferguson. Il meccanismo è produttivo, ma non privo di una sorta di formalismo come se la struttura della trama di fosse autosufficiente e si alimentasse da sola, oppure come se Paul Auster si fosse crogiolato nella sua intuizione. Se questo è un difetto fisiologico dell’impianto di 4 3 2 1, con il progredire in parallelo delle quattro soluzioni, la formula diventa automatica e prevedibile, in particolare se si ha un minimo di dimestichezza con le cronache americana della seconda metà del ventesimo secolo. Le uniche scosse dovrebbero venire da lì, ma nel contesto di 4 3 2 1 incide di più il caso (almeno così pare) della storia nazionale. Questo si può capire perché 4 3 2 1 è un romanzo più costruito che ispirato e sembra scritto con un elenco telefonico a portata di mano: un sacco di personaggi che vanno e vengono, ma che non restano. Non bastano le sommarie descrizioni, tanto è vero che Paul Auster deve ricorrere in continuazione a riepiloghi, elenchi, raccordi, rimandi e ripetizioni per cercare di mantenere un minimo di continuità. Avesse fatto come uno degli Archie più rigororsi e tormentati, capace nelle sue revisioni di eliminare tre pagine su quattro, 4 3 2 1 sarebbe stato meno ridondante, più focalizzato, meno esposto a sviste imbarazzanti. Una, almeno, emblematica: nonostante l’effluvio di citazioni di scrittori, registi, pittori, musicisti e artisti che rendevano New York l’unica meta (“New York è New York. Non esistono altri posti”), di Bob Dylan (Bob Dylan) non c’è traccia. Eppure esordiva proprio a New York, e proprio al centro dell’arco temporale sottinteso da 4 3 2 1, ovvero nel 1962. All’aggiornato, colto e intraprendente Archie Ferguson non poteva sfuggire, visto che tra l’altro, in uno dei suoi sviluppi più polemici, si permette di dubitare dello sbarco sulla Luna, un bel mito americano di quell’epoca. Una crepa non indifferente perché se le variazioni sul tema di Archie Ferguson sono indipendenti e volubili, per Paul Auster, l’universo sullo sfondo rimane sempre lo stesso, ancorato alla realtà, e lì, giusto in coincidenza con l’unico punto fermo, manca qualcosa.

Nessun commento:

Posta un commento