lunedì 1 gennaio 2018

Wynton Marsalis

L’approccio è piuttosto singolare e molto particolare: non si tratta di un trattato di musicologia, e nemmeno di una biografia, anche se naturalmente sono frequenti i passaggi autobiografici, ma piuttosto di una dichiarazione d’amore per il jazz, per la musica e per la cultura in generale. Con un atteggiamento molto divulgativo e passionale che si può intravedere fin dall’introduzione dove Wynton Marsalis spiega il senso del ritmo, dello swing e del jazz con parole ed esempi semplicissimi (persino onomatopeici) che chiunque, anche chi è a digiuno di tecnica musicale, può comprendere. Tutto il libro si snoda attraverso la narrazione di cosa s’intende per ispirazione, per improvvisazione, per feeling, cosa si prova suonando e ascoltando il jazz, e quali sono gli elementi che distinguono un suono da un altro. Il tono, pur denso di informazioni, riferimenti alla storia del jazz, dei jazzisti e per esteso della cultura afroamericana e dell’America è sempre molto leggero e alla portata di tutti. Per esempio, quando Wynton Marsalis spiega che il tempo è il dettaglio più importante nel jazz (“Il jazz è l’arte del timing. Ti insegna quando. Quando cominciare, quando attendere, quando devi farti avanti, quando devi prendere il tuo tempo, strumenti indispensabili per far felice qualcuno”) lo fa rivelando che è una costante questione di conflitto tra batteristi e bassisti, che vedono il chitarrista un po’ come un arbitro. Di metafore come questa è pieno il libro anche perché è nell’intenzione (dichiarata) di Wynton Marsalis dimostrare che il jazz è una musica viva, per niente élitaria e con fondamentali radici nella lotta per l’identità e per i diritti civili. Questo è un tema che, dall’inizio alla fine, scorre in parallelo con la “spiegazione” del jazz secondo Wynton Marsalis, che assume via via l’aspetto di un elaborato glossario che descrive i linguaggi, i luoghi comuni, e i cliché del jazz (illustrando cos’è una jam session piuttosto di una cutting session, cosa significa la chitarra piuttosto che una sezione ritmica) ma sempre mantenendo un livello (quasi) didattico. La parte centrale, che comincia con un’ampia dissertazione sul blues (molto pertinente, visto che “quando accetti il blues, chiunque tu sia, accetti la tua condizione di essere umano”) arriva poi a trattare il jazz all’interno della cultura afroamericana e Wynton Marsalis ha il pregio di affrontare la questione con un coraggio non relativo quando dice (e spiega in modo molto articolato) che “jazz non è race music” e le conclusioni a cui giunge (“Il jazz ci chiama a impegnarci per la nostra identità nazionale. Dà espressione alla bellezza della democrazia e della libertà individuale e alla scelta consapevole di accogliere il carattere umano di tutti. E’ esattamente quello che la democrazia americana dovrebbe essere”) oltre che molto interessanti sono più che condivisibili. Il libro si chiude con una serie di ritratti dei più importanti jazzisti secondo Wynton Marsalis (Louis Armstrong, Miles Davis, John Coltrane, Dizzy Gillespie, tra gli altri) corredati da brevi e sintetiche discografie, tutti testimoni del fatto che “il jazz fa sì che ogni individuo plasmi un linguaggio con i propri sentimenti e usi questo linguaggio, assolutamente personale, per comunicare la propria visione del mondo. Le registrazioni cristallizzano i suoni di questi musicisti, concedendoci il piacere di entrare nel loro mondo ogni volta che lo desideriamo. Il mondo secondo Lester Young, pensate? Ecco dove voglio essere. E ritornarci un’infinità di volte”. Se si sfogliano con un minimo di attenzione queste pagine, l’indirizzo per quei luoghi magici non è difficile da trovare.

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